19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Franco

Ma era scontato anche che alla fine i grillini l’avrebbero votata: altrimenti si sarebbero trovati isolati e insieme spaccati. Prigionieri non di una strategia ma dell’assenza di qualunque strategia

Le convulsioni del Movimento Cinque Stelle sulla riforma della giustizia erano prevedibili. Ma era scontato anche che alla fine i grillini l’avrebbero votata: altrimenti si sarebbero trovati isolati e insieme spaccati. Prigionieri non di una strategia ma dell’assenza di qualunque strategia, e risucchiati in un passato nostalgico. Esiste un grillismo giustizialista che soffia sul fuoco dell’indignazione. Grida d’ufficio alla «controriforma» proposta dalla Guardasigilli, Marta Cartabia, demonizzata in realtà per boicottare l’azione del governo di Mario Draghi. E ieri ha cercato di forzare la mano al premier, facendo tardare la riunione a Palazzo Chigi.
Alla fine, però, i Cinque Stelle si sono piegati. Si sono resi conto che la maggioranza sarebbe andata avanti lo stesso, approvando la mediazione. Così, è arrivato il «sì», dopo avere riaperto per un’ora la trattativa; minacciato l’astensione; e preteso qualche concessione sulla prescrizione. Tre anni fa la linea del manicheismo giudiziario avrebbe prevalso senza resistenze. Stavolta si è affacciato e poi ritratto, indebolito da chi, nello stesso Movimento, ha chiesto senso di responsabilità: seppure timidamente, per il timore di essere sbranato dai cosiddetti puri e duri.
D’altronde, il tema divide una formazione che sulla delegittimazione anche giudiziaria degli avversari ha costruito la propria sottocultura e le proprie fortune elettorali. Quel grillismo ritiene di poter sopravvivere solo se non perde referenti e parole d’ordine estremiste: al punto da utilizzare la propria crisi per tentare di riproporle e imporle. Sembra non vedere, o forse banalmente non gli interessa, che senza una riforma della giustizia come quella preparata faticosamente dall’esecutivo i contraccolpi saranno pesanti; e non solo per i processi, i giudici, le vittime e gli imputati. Lo saranno perché il sistema così com’è viene ritenuto incapace di offrire garanzie all’Europa. E può spingerla a porre condizioni-capestro all’Italia prima di concederle una parte dei finanziamenti del Fondo per la ripresa. Una giustizia inefficiente comporta costi non solo sociali. Favorisce una florida economia dell’inefficienza che genera corruzione e acuisce le disuguaglianze. Forse sarebbe più saggio prendere atto che la riforma controversa dell’ex Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede non è solo figlia di un altro governo. Riflette una stagione populista finita da tempo, e non rimpianta: se non da qualche orfano del potere.
Non stupisce che nello scontro consumatosi ieri nelle file del M5S siano stati i seguaci dell’ex premier Giuseppe Conte a bersagliare la mediazione di Palazzo Chigi, difesa invece dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. È tipico, nei momenti di difficoltà, che i partiti scarichino i problemi interni sul governo. Ma stavolta lo schema era così smaccatamente strumentale che Draghi l’ha smontato rapidamente. D’altronde, è difficile bloccare una soluzione magari parziale, imperfetta, eppure obbligata. Anche perché si intravede un’altra incognita, simmetrica e opposta a quella rappresentata dalle convulsioni del M5S.
Si tratta dei sei referendum sulla giustizia promossi dai radicali e dalla Lega, e abbracciati in parte anche da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Sebbene tocchino per lo più temi che non rientrano nella riforma, finiscono per raccogliere un fronte eterogeneo, teso a ridimensionare il potere di una magistratura in crisi di identità e di credibilità. Il testo preparato dal governo serve a evitare una contrapposizione tra supposti alleati e supposti nemici dei giudici: schema da muro contro muro tra populismi, in questo caso contrapposti e non solidali.
Puntare i piedi per un’ora minacciando sfracelli e poi intascare le piccole concessioni del premier, per il M5S è un magro bottino. Il richiamo giustizialista, per quanto prepotente, si è rivelato un’arma spuntata. Un tempo, l’immagine di un Movimento «solo contro tutti» sarebbe stata la certificazione di cromosomi virtuosamente antisistema. Oggi, invece, nasconde malamente la guerra interna. La novità è che il resto della coalizione guidata da Draghi va avanti, indifferente al minaccioso lessico grillino. Anche sotto questo aspetto, i tempi sono cambiati.

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