19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

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di Luciano Fontana

La speranza è che i cinquanta giorni di campagna referendaria siano utilizzati per spiegare e comprendere meglio su che cosa andiamo a votare. Togliendo dal campo argomenti apocalittici che creano danni all’immagine del Paese

Una campagna elettorale senza fine. Iniziata addirittura prima delle Amministrative del giugno scorso e destinata a durare fino a dicembre. I suoi effetti di paralisi sul sistema politico, parlamentare ed economico li ha illustrati bene Antonio Polito in un suo editoriale. Un’ulteriore riflessione meritano i toni che questa campagna ha assunto dal giorno in cui i cambiamenti costituzionali sono stati presentati come la «madre di tutte le riforme». Quella che avrebbe rivoluzionato il Paese e deciso il destino del governo e dell’attuale Presidente del Consiglio. Un voto su una riforma costituzionale imperfetta, con alcuni aspetti positivi e soluzioni a volte pasticciate (sul nuovo Senato, sul processo legislativo, sull’elezione del Presidente della Repubblica), si è trasformato così in una guerra di religione. Il merito è svanito in nome della battaglia politica per abbattere il nemico. La resa dei conti all’interno del Pd ne è la dimostrazione più evidente: scontro sulla leadership, odi personali e divisioni sull’identità futura del partito sono ormai un groviglio inestricabile.

Il risultato è la contrapposizione di due fronti variegati in cui le distinzioni classiche destra-sinistra, conservatori-progressisti sono completamente saltate. Da un lato combattono i custodi di una «Costituzione intoccabile», anche se nella storia repubblicana è stata toccata più volte. Al loro fianco chi chiede di votare «No» vagheggiando commissioni bicamerali o legislature costituenti.

Credo sia chiaro che, vista la lentezza della politica italiana, se la riforma sarà bocciata ci vorrà molto tempo prima che qualcosa di diverso si rimetta in moto. Come è altrettanto chiaro che questa revisione costituzionale non porterà a una dittatura dell’esecutivo azzerando il bilanciamento tra i poteri dello Stato. Sull’altro fronte c’è chi afferma che senza il «Sì» il Paese si paralizzerà: dal 4 dicembre ogni riforma diventerà impossibile. Un «giudizio di Dio» sul destino dell’Italia. Autorevoli personalità del giornalismo e dell’establishment internazionale hanno avallato una tesi così spericolata.

Anche in questo caso la battaglia di fazione oscura i fatti e la ragionevolezza. Con la Costituzione del dopoguerra abbiamo affrontato la ricostruzione, accompagnato il boom economico degli Anni 60, affrontato l’impresa dell’entrata nell’euro. Sono state votate leggi importanti che hanno cambiato nel profondo la nostra società. Certamente la vittoria del «No» impedirebbe una migliore divisione dei poteri tra Stato e Regioni. Ma l’assenza o il rinvio di riforme decisive (su tasse, burocrazia, tempi e modi della giustizia, ricerca, investimenti sulla formazione) pesano certamente di più nella mancata modernizzazione dell’Italia.
Allora la speranza, a questo punto flebile, è che i cinquanta giorni di campagna referendaria siano utilizzati per spiegare e comprendere meglio su che cosa andiamo a votare. Togliendo dal campo argomenti apocalittici che infiammano le platee ma creano danni all’immagine del Paese. E permettono, tra l’altro, a qualche speculatore di guadagnare su mercati in costante fibrillazione. Dopo il 4 dicembre non arriverà la dittatura e non ci sarà la fine del mondo. Gli italiani devono giudicare una riforma, punto. Il «Corriere» continuerà a fare la sua parte per aiutare i lettori a decidere con libertà e consapevolezza.

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