La svolta quando Schlein (deputata) ha alzato i toni contro «una riforma pericolosa», a quel punto la premier ha detto basta
La notizia del testacoda, che ha spiazzato Forza Italia e fatto infuriare le opposizioni, arriva alle dieci del mattino sotto la voce «fonti di governo». Due righe secche, per dire che il disegno di legge con cui il governo punta a introdurre l’elezione diretta del premier inizierà il suo viaggio parlamentare dal Senato e non più dalla Camera. Due righe, che tra Montecitorio e Palazzo Madama vengono lette come un diktat di Palazzo Chigi. Perché Giorgia Meloni ha deciso di sfilare ai deputati «la madre di tutte le riforme», destinata a traghettare l’Italia nella «terza Repubblica»? Ragioni strategiche, politiche e anche regolamentari, che hanno a che fare con le tensioni tra i partiti e con la necessità di Alla Camera la riforma era attesa come un pacco dono. Poiché l’Autonomia firmata da Roberto Calderoli e cara a Matteo Salvini ha iniziato il viaggio dal Senato, tutti si aspettavano che l’iter della riforma costituzionale sarebbe partito da Montecitorio. Anche perché la ministra è di FI e così il presidente della commissione Affari costituzionali, Nazario Pagano. E invece no, dietrofront. «Alla Camera eravamo pronti, ma l’importante è fare un buon lavoro», fa buon viso il berlusconiano Paolo Emilio Russo. Maria Elisabetta Casellati assicura che dentro FI non c’è «alcun tipo di stupore» e smentisce che dietro la decisione arrivata dall’alto ci sia una scelta politica. Ma se la ex presidente del Senato dispensa parole come tazze di camomilla, le opposizioni denunciano «il baratto». Il premierato, in cambio dell’autonomia differenziata.
È proprio la natura del patto tra Meloni e Salvini, per arrivare alle Europee ciascuno con il proprio vessillo da sventolare, ad aver convinto la leader di Fratelli d’Italia a «spedire» il testo del premierato al Senato. Le ragioni le spiegano sottovoce i meloniani. Se le due riforme procedono nello stesso ramo del Parlamento, per FdI sarà più facile tenere d’occhio la Lega. Meloni insomma punta a blindarsi dove gioca in casa. Sullo scranno più alto del Senato siede l’amico di sempre Ignazio La Russa, alla presidenza della commissione Affari costituzionali c’è un altro fedelissimo, Alberto Balboni, ed è un senatore di FdI anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani. La navigazione alla Camera rischierebbe di essere più lenta e perigliosa, anche perché a dichiarare l’ammissibilità degli emendamenti sono i presidenti e a Montecitorio c’è il leghista Lorenzo Fontana.
E c’è un altro aspetto che Meloni ha valutato con il suo braccio destro Fazzolari ed è che il regolamento di Palazzo Madama «funziona, è più fluido di quello della Camera» e i tempi del dibattito sono certi e rapidi. Si possono contingentare e per le opposizioni è più difficile fare ostruzionismo. E poiché l’obiettivo è arrivare alle Europee con il primo via libera al premierato, oltre che con l’autonomia e i primi migranti in partenza per l’Albania, la velocità diventa un fattore decisivo.
Tra gli azzurri la delusione si avverte. «Mi avrebbe fatto piacere se l’iter fosse partito da noi — ammette Pagano —. Ma ci sarà la seconda lettura ed escludo che possa arrivare dal Senato blindata». Meloni punterà ad approvarla senza stravolgimenti entro la primavera e poi, dopo le Europee, aprirà a modifiche anche sul tema più controverso: il secondo premier non eletto dal popolo. Tre giorni fa la ministra Casellati era ancora convinta di poter siglare un accordo sul merito con il Pd e se insisteva nel chiedere che il «suo» ddl partisse dalla Camera, è anche perché Elly Schlein è in commissione Affari costituzionali. Ma quando la segretaria del Pd ha alzato i toni contro «una riforma pericolosa», la premier ha detto basta. E ha sparigliato.