Fonte: Huffington Post
di Flavia Perina
Rileggere la biografia di Licio Gelli come utile antidoto alla nostalgia della Prima Repubblica, che era quella dei e degli Ingrao e degli Almirante, ma anche quella delle bombe sui treni e dei dossier di Villa Wanda
La morte del Gran Maestro offre all’Italia l’opportunità di colmare – almeno per un giorno – le lacune della memoria selettiva ed agiografica che colpiscono il Paese in questi anni di crisi e di paura. Sì, è vero, fu la Repubblica dei giganti. Ma fu anche la Repubblica in cui i giganti dovevano ogni giorno passare sotto le forche caudine della Guerra fredda, delle sue necessità, delle sue azioni spesso miserabili e omicide, dei suoi ricatti.
Gelli è stato l’icona di quella stagione. Prima della P2 e anche dopo. Il fascista repubblichino che a cose perse cominciò a fornire ai partigiani lasciapassare della kommandatura, e guidò le truppe americane quando entrarono a Pistoia, e si piazzò al sole nella nuova stagione denunciando una cinquantina di collaborazionisti. Gelli al centro dei misteri e dei grandi affari degli anni ’70, da Calvi a Sindona, referente golpista, e però sempre rispettato e blandito grazie – si dice – alle cartelline arancioni che conservava nelle sue tre stanze fisse all’Excelsior di Roma, dove riceveva come un sultano tutti quelli che contavano qualcosa. Gelli sponsor della riconfigurazione dei poteri alla fine degli anni ’90, col suo Piano di Rinascita Nazionale evocato ancora oggi come chiave di lettura della prima stagione berlusconiana.
Spesso, e soprattutto dopo l’imitazione geniale che ne fece Corrado Guzzanti, abbiamo avuto la sensazione che lo avessero sovradimensionato ad arte e che il re di Castiglion Fibocchi fosse solo il volto, il prestanome, di cose assai più grandi di lui. Quella faccia è comunque un’utile richiamo per l’Italia di oggi, che idealizza il suo passato, ricostruendolo con il filtro sentimentale dei ricordi come un’isola felice di benessere e di tranquillità. In quella pretesa isola felice, tra il ’68 e la fine del Novecento, furono registrati 12mila attentati in trent’anni. Nel solo 1980 – l’anno della strage di Bologna, per la quale Gelli fu condannato a 10 anni con l’accusa di depistaggio – si contarono 120 morti nelle strade e nelle piazze italiane, un numero che oggi andrebbe ricordato a chi parla degli attentati di Parigi e dei “terroristi della porta accanto” come di una cosa senza precedenti.
In quella Bengodi della politica seria, il club di Gelli, figlio di agricoltori, che a scuola non andò mai oltre la licenza elementare, ebbe il pieno controllo non solo di larga parte dei Servizi segreti e dei grandi affari, ma anche dell’informazione “di serie a” del Corriere della Sera, dove “il signor P2” veniva intervistato in esclusiva e con deferenza da Maurizio Costanzo. In quell’Italia lì, i capi del controspionaggio militare iscritti alla P2, vedi Vito Miceli, potevano finire indagati per cospirazione e golpe, e poi transitare sui banchi di partiti di opposizione anche seri come il Msi, che avevano nello statuto il divieto di iscrizione alla massoneria ma qualche volta dovevano scordarsene.
E sempre in quel tipo di Paese, dietro le quinte del dibattito tra i grandi leader che oggi rimpiangiamo, chi contrastava l’area di relazioni della P2 doveva stare attento. L’inchiesta su Sindona spostata da Milano al porto delle nebbie romano. Le minacce alla Anselmi e la bomba sotto casa della sorella. I libri sequestrati, come il saggio di Sergio Turone su Corrotti e corruttori. Per dire il meno, perché poi ci sono anche i morti ammazzati, a cominciare da Giorgio Ambrosoli.
Ecco, la scomparsa di Licio Gelli è un utile memorandum per chi si è dimenticato tutto ciò, e sono molti, perché è fastidioso evocare la stagione della nostra sovranità limitata, e risulta ansiogeno affrontarne gli interrogativi. Compresi quelli che avanzò a suo tempo Massimo Teodori, il combattivo relatore di minoranza radicale nella Commissione d’inchiesta P2, riguardo alla natura “di sistema” della loggia segreta. “Contrariamente a quanto afferma la relazione Anselmi – sosteneva – la Loggia non è stata un’organizzazione per delinquere esterna ai partiti ma interna alla classe dirigente. La posta in gioco per la P2 è stata il potere e il suo esercizio illegittimo e occulto con l’uso di ricatti, di rapine su larga scala, di attività eversive e di giganteschi imbrogli finanziari fino al ricorso alla eliminazione fisica”. Un dubbio che resta. E sparge luci oblique anche sul nostro presente.