Per una società con un numero sempre più elevato di anziani la parola chiave deve essere «prossimità»
Idati del Censis, se studiati e non solo ridotti ai titoli ad effetto, possono dire molte cose sulle tendenze della società italiana e spingere a pensare il futuro del Paese in modo realistico e innovativo. Ad esempio: l’aspettativa di vita, dalla metà degli anni Cinquanta ad oggi, è cresciuta di quindici anni per tutta la popolazione. Le donne vivono di più, ed è anche giusto pensando al surplus di fatiche che sopportano. Ma in generale i nostri nonni in media morivano a 65 anni, le nonne a 69 e oggi, invece, l’aspettativa di vita è cresciuta a 80,6 e 84,8 primavere. Faccio fatica a considerare questo un dato negativo, come si suole fare con tutte le previsioni demografiche, in questo clima di allegro catastrofismo che accompagna i frizzi e i lazzi lugubri di questo tempo scuro e inquieto. Ancora: il tasso di fertilità, nello stesso periodo, è sceso dal 2,33 all’1,24, con un’età media delle madri che è cresciuta dai 29,5 anni del 1955 ai 32,4 di oggi.
Anche in questo caso il dato può, deve essere letto, in due modi, non solo in uno. È evidente che c’è una drammatica riduzione del numero delle nascite, superiore a quella di altri Paesi europei. E questo ha a che fare con l’assenza, in Italia, di una rete di sostegno per le coppie o i genitori soli e con una generale perdita di fiducia nel futuro. Ma, al tempo stesso, è difficile rimpiangere il tempo in cui le donne facevano figli a ripetizione, non per loro scelta, e questo era il modo per tenerle lontano dal lavoro e dalla vita sociale.
Lo stesso vale per l’indicatore che più dovrebbe far riflettere, quello sulla composizione familiare. Le persone che vivono da sole sono passate dal 9,5 % del 1955 al 33,2 del 2021. E le previsioni dei modelli del Censis proiettano, a venti anni da oggi, il raggiungimento del 37,5% delle famiglie composte da un solo cittadino. Per conseguenza di tutto questo la percentuale degli over 65 è passata dal 8,6% del 1955 al 24,0 di oggi e l’età media degli italiani è cresciuta dai 32,6 ai 46,4 anni.
Cosa ci dicono questi dati che vanno interpretati sfuggendo alle semplificazioni selvagge a cui ci ha abituato il modo di ragionare dei social? Che sarebbe il tempo di fare alcune scelte radicali, coraggiose. La prima è ripensare il welfare. Una popolazione che invecchia deve essere mantenuta attiva, pena l’insostenibilità dei costi sociali. Il che significa formazione, anche tecnologica, permanente, significa promozione di occasioni di scambio e di relazione comunitaria dopo il tempo del lavoro, diffusione della medicina e dei servizi di prossimità. Prossimità è proprio la parola chiave, per me, del futuro. Una società che consente di vivere il tempo di vita più lungo della storia dell’umanità deve però assicurare, con la quantità, anche la qualità dell’esistenza di ciascuno. Il che vuol dire rafforzare la vicinanza di tutti i servizi fondamentali, a cominciare da quelli sanitari e sociali per proseguire con quelli che riguardano la qualità della vita. Nelle leggi e nei contratti bisognerebbe tenere conto dei lavoratori anziani, riservando loro profili e mansioni compatibili con la loro condizione fisica e anagrafica.
Le città devono essere ripensate immaginando una raggiungibilità, in quindici minuti, di ogni servizio fondamentale per la vita piena di tempo e di qualità di una comunità che invecchia. La città vicina, non le megalopoli che diventano autostrade. Le tecnologie, per una volta, ci possono socialmente aiutare. E poi, fuori dalle discussioni ideologiche, andrebbe ripensata la politica per l’immigrazione. Se diminuisce la popolazione attiva e cresce quella che è sostenuta dal welfare, bisognerà intervenire in qualche modo per rendere sostenibile nel tempo l’assetto sociale. Già oggi molte nostre scuole, specie in piccoli centri, chiuderebbero, se non ci fossero i bambini stranieri. Governare razionalmente i flussi migratori, senza costruire muri fatti di autodistruttiva paura, dovrebbe essere la sfida delle culture democratiche. E poi non rinunciare a favorire una natalità che sia frutto di una scelta libera e consapevole in primo luogo delle donne. Fare un figlio è difficile in Italia. Lo è per le coppie, di qualsiasi forma, lo è ancora di più per le donne singole che decidono di mettere al mondo una creatura. Anche qui bisognerebbe immaginare un welfare della natalità, capace di allargare giuridicamente le maglie delle possibilità di procreazione, di assistere economicamente e socialmente chi si vuole sottrarre al destino della «crescita zero», di estendere il numero degli asili nido, di aprire le scuole al pomeriggio per farle diventare il cuore pulsante e socialmente sicuro di adolescenze non trascorse sui muretti o scrollando TikTok, ma nella coltivazione comune delle proprie passioni sportive, fotografiche, musicali, culturali. Esperienze da vivere insieme.
Pensare di risolvere solo con richiami repressivi i problemi posti dagli studenti che scendono in piazza significa non capire che questa generazione vuole ritrovare, disperatamente ritrovare, spazi di condivisione e di vita collettiva che i social, la pandemia, il senso di ansia generalizzato, la violenza del discorso pubblico, le stanno sottraendo. Il Censis ha definito quest’anno la società italiana come affetta da sonnambulismo. Il rischio però è che anche chi deve leggere e decidere abbia la stessa sindrome. Che si muova freneticamente, ma senza vedere dove sta andando.