Fonte: Corriere della Sera
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È una professione che vive su precise regole di comportamento entro un perimetro di responsabilità cresce nel confronto e risponde a codici che ne misurano l’impatto
Non si fa che parlare di ricerca. Forse nell’incertezza di questo tempo flagellato dalla pandemia offre una percezione salvifica, una finestra su ciò che è difficile guarire. Anche la salute economica del nostro Paese ha bisogno di cure intensive e la ricerca è spesso evocata come una chiave di volta per occupazione e rilancio. In effetti questo è il suo ruolo in molti Paesi nel mondo. Poiché così non è (ancora) nel nostro, oltre a discuterne dovremmo essere certi che il significato di «fare ricerca» sia ben chiaro ai cittadini. Così non potrà che esserlo anche ai nostri rappresentanti in Parlamento che sapranno trasformare questo concetto in leggi. Con l’attuale fortuna di avere un governo che come forse mai nessuno in precedenza può essere l’interlocutore ideale, avendo ministri che di ricerca hanno vissuto.Fare ricerca è una professione che vive su precise regole di comportamento entro un perimetro di responsabilità. Nasce dall’esigenza di rispondere a necessità e curiosità, cresce nel confronto e risponde a codici che ne misurano l’impatto.
Implica quindi un’organizzazione solida e dinamica che sappia intercettare le domande e adattarsi agli obiettivi. Riducendo questi ultimi alla dimensione economica, ad esempio, ogni sterlina investita al Biomedical Research Centre di Oxford rende il 46% in profitti e posti di lavoro, tralasciando i benefici per la salute. La ragione per cui un tale rendimento è possibile in un’istituzione pubblica sta in larga misura nel principio in cui si radica la sua gestione. Accountability, cioè responsabilità su decisioni e risultati. Nei fatti, una delega di gestione attraverso cui la collettività affida risorse pubbliche – non solo denaro evidentemente – a persone in grado di restituirle il massimo beneficio. Un principio di responsabilità individuale e collettiva che ci è culturalmente ancora distante ma che in un anelito riformatore dovremmo fare nostro.
Definire modello gestionale e principi sui cui si fonda è un passaggio essenziale per comprendere cosa significhi «fare ricerca» e superare la parziale stagnazione che ci caratterizza.Questo rimanda alle recenti considerazioni riportate dal Corriere su scarsa reputazione e attrattività dei nostri atenei nonostante il buon posizionamento nel ranking mondiale, autodenigrazione e necessità di una politica di internazionalizzazione. Aspetti che di certo non si risolvono con la vicinanza geografica all’Africa, il made in Italy e la buona cucina. Avere riconoscibilità di pari in una comunità significa condividerne principi e regole.
Le derivate sono molte ma due punti sono essenziali e interconnessi: reclutamento del personale e rapporto con il settore privato. Il nostro Paese delinea l’opportunità di reclutare un giovane promettente o un già noto scienziato sulla base di presupposti che hanno spesso poco a che fare con la ricerca, dentro i sepolcri imbiancati dei concorsi pubblici. Questo basta per chiudere il discorso sull’accountability prima di aprirlo. Differenziamo le carriere introducendo posizioni orientate a insegnamento e ricerca, e su questa base ridefiniamo le modalità di reclutamento perché non tutti fanno tutto. E apriamo alla cooptazione responsabile come in ogni altra istituzione internazionale.
Lo stesso principio di responsabilità dovrebbe guidare la relazione pubblico-privato. Poco serve riaffermarne l’interesse se università e istituti di ricerca non trovano, nei fatti, un alleato nella Pubblica Amministrazione che li avviluppa in vincoli e pregiudiziali timori di conflitti di interesse. Il Biomedical Research Centre, come centinaia di istituzioni nel mondo, ha tra i propri scopi il sostegno ai partenariati pubblico-privato per mantenere la posizione di eccellenza. Il settore privato diventa così interlocutore del pubblico riconoscendosi nei principi che non sono solo fare business, ma partecipare alla capitalizzazione delle risorse del proprio Paese e al ritorno sugli investimenti. I governi nel mondo vedono in essi opportunità per risolvere il coordinamento tra ricerca e mercato e nei Paesi in via di sviluppo per un più facile accesso a servizi ed educazione sanitaria.
Anche in Italia, ma il problema sono l’assenza di un’azione di sistema e la contrapposizione ideologica al cambiamento. Su entrambe l’esperienza che bene descrive il nostro potenziale è l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT). Lontani dalle recenti polemiche ad orologeria, i numeri parlano da sé. Quattro linee di ricerca su macro-obiettivi di trasferimento tecnologico e sfide sociali. 1800 persone da 60 paesi, 35 anni d’età media, 40% donne, 50% rientri dall’estero e stranieri, 80% ricercatori, tecnici e dottorandi, oltre 50 vincitori di progetti ERC in una piramide al cui vertice solo il 3% ha posizioni a tempo indeterminato per non saturare le prospettive dei più brillanti. Il 50% di fondi da grant competitivi i cui risultati hanno generato oltre 1000 brevetti e più di 50 start-up attirando progetti commerciali per oltre 25 milioni di euro. Con un finanziamento pubblico di 100 milioni all’anno, analogo a quello del German Center for Neurodegenerative Diseases (DZNE) diretto da uno scienziato italiano, che Elsevier colloca tra i primi tre al mondo e che nessuno in Germania ritiene saccheggi la ricerca pubblica.
La ricerca italiana non può né deve essere solo il modello IIT così come quella tedesca non è solo DZNE. La loro innegabile efficienza non nega l’esigenza di adeguati fondi ad un sistema pubblico e diffuso di ricerca ed insegnamento. Il punto è la strategia che un Paese adotta. In quelli competitivi le due linee coesistono. Quando entrambe si dotano di una governance che traduce il potenziale in risultati, il cerchio si chiude trasformando conoscenza in valore.
I cambiamenti richiedono tempo e la loro sopravvivenza adesione a principi chiari. Quelli che abbiamo sottolineato, a nostro avviso, sono essenziali per una politica di internazionalizzazione e affinché i cittadini comprendano appieno cosa significhi «fare ricerca».