Ritorno al nucleare «pulito e sicuro». Cosa vuol dire?
Ritorno al nucleare? In Italia l’ipotesi è presente nel programma della coalizione di centrodestra salita nel frattempo al governo («ricorso alla produzione energetica attraverso la creazione di impianti di ultima generazione senza veti e preconcetti, valutando anche il ricorso al nucleare pulito e sicuro»). In altri Paesi, come il Giappone, la svolta è già in fase operativa. La Cina è il Paese che ha costruito di più: attivati 40 nuovi reattori negli ultimi 20 anni. Allora cerchiamo di capire cosa significa «produzione di energia da fissione nucleare di ultima generazione».
Quarta generazione, pulita e sicura. Cosa vuol dire?
Vediamo innanzitutto cosa si intende per centrali pulite: in effetti il processo di fissione non crea emissioni di CO2, il nemico pubblico numero uno per il riscaldamento globale. Per questo anche l’Europa ha cambiato la tassonomia considerandole green. Sono anche sicure? Come sempre fino a quando non accade un incidente. Cosa cambierà allora con le centrali di quarta generazione? Si tratta di una famiglia di tecnologie più avanzate studiate già da decenni (reattori veloci refrigerati al piombo) che permette di usare con standard di sicurezza più elevati rispetto a quelli attuali anche l’uranio così come viene isolato dagli altri minerali, senza il costoso processo di arricchimento. Questo dovrebbe ridurre anche la quantità di scorie radioattive. Il problema è che nonostante la quarta generazione sia molto citata siamo ancora nella fase di studio e sperimentazione, e non ne esiste nessuna operativa nel mondo. Inoltre molti sono gli ostacoli tecnologici alla effettiva realizzazione di queste centrali.
Quanto costa una centrale
Poniamo comunque che si voglia iniziare ora a costruire. Quanto costa? Difficile dare una stima univoca. Ma per esempio la centrale di Flamanville 3 Epr di Edf in fase finale di costruzione in Francia sta costando una cifra monstre: 12,7 miliardi (la stima era di 3,3) e bisogna considerare che la Francia è uno dei Paesi con il maggiore know-how tecnologico in materia di nucleare con una produzione di energia atomica che copre circa il 70% del fabbisogno del Paese. I lavori sono iniziati nel 2007. Sarà uno degli impianti più moderni e potrà rifornire di energia una città come Parigi, un bel salto in avanti dalla prima centrale della storia, quella costruita in Russia a Obninsk nel 1954. I costi di costruzione sono una delle spine nel fianco del nucleare. Perché una volta in funzione i costi sono ridotti, ma bisogna ammortizzare tutto ciò che c’è stato prima. Ancora oggi il nucleare, a conti fatti, è più costoso dell’energia da fonti fossili. Nel nucleare l’ingresso nel mercato è molto lento e costoso. L’uscita ancora di più, come sappiamo bene in Italia.
Le materie prime e il mercato dell’uranio
C’è un altro tema cruciale: per costruire delle centrali nucleari a scopo civile servono tante materie prime rare, come quelle per controllare lo xenon, un gas che può diventare un «veleno nucleare», e per ridurre le scorie della fissione e stabilizzare il processo (per inciso il primo fornitore al mondo è l’Ucraina). Il plutonio è un altro materiale radioattivo spesso citato. Ma non c’è dubbio che la materia prima imprescindibile in ogni caso sia l’uranio, anche se parliamo di centrali cosiddette di quarta generazione. In ogni caso anche in queste nuove centrali, una volta risolti i problemi tecnologici, si potrà usare il prodotto della concentrazione dei minerali che contengono l’uranio (generalmente lo yellowcake, che si vende sul mercato, U3O8) al posto dell’uranio arricchito che usiamo ora (U235 che nell’uranio naturale rappresenta solo lo 0,72% e che con il processo di arricchimento deve essere portato al 3-5%). L’uranio in poche parole resterà la chiave di volta del nucleare. Premesso che la transazione è possibile solo con i Paesi che hanno aderito al trattato di non proliferazione del nucleare, quali sono i Paesi che possiedono e vendono l’uranio? I maggiori produttori sono il Kazakistan (che con 21 mila tonnellate fornisce il 45% dell’uranio mondiale), seguito dall’Australia (8%), Namibia (12%), Canada (10%). Tra i grandi produttori ci sono anche il Niger e la Russia (circa il 5% a testa). In seguito a processi di concentrazione di mercato degli anni Novanta l’uranio è ormai in mano a pochissime società come la Kazatomprom (da sola gestisce miniere pari a un quarto dell’uranio in circolazione, anche se la miniera più grande al mondo è quella canadese di Cigar Lake), la Orano, la Uranium One e la Cameco.
L’uranio può finire?
Già oggi i 450 reattori presenti in tutto il mondo e collegati alla rete consumano tutta la produzione annuale di uranio (48 mila tonnellate) per produrre 396 GWe (gigawatt equivalenti). Si tratta di circa il 10% del fabbisogno di energia del mondo. Ma cosa accadrebbe se la corsa al nucleare civile dovesse sul serio ripartire, considerando che anche sul fronte militare la produzione di armi nucleari è aumentata? Secondo la bibbia dell’argomento (il rapporto Uranium 2020 dell’Iaea, la International Atomic Energy Agency) nel migliore dei casi da qui al 2040 la produzione potrebbe salire a un massimo di 626 GWe. Questo richiederebbe un maggior sfruttamento delle risorse totali di uranio sulla Terra che non sono poi molte: i principali giacimenti sono in Australia che detiene il 28% dell’uranio nella classe sotto 130 dollari per chilo, mentre il Kazakistan ha quasi il 50% dell’uranio sotto gli 80 dollari per chilo. Ottanta dollari è considerato attualmente il costo di produzione per chilo dell’uranio, il che vuole dire che vale la pena estrarlo quando il prezzo sale. Cosa che non sta accadendo: negli ultimi 20 anni l’uranio ha avuto un picco a circa 350 dollari per chilo, ma oggi viaggia sotto i 100 dollari. Peraltro l’uranio è spesso in coppia con le terre rare, fondamentali per la tecnologia, e il processo di estrazione dell’uranio dagli altri minerali le distrugge. In tutto il mondo esistono poco più di 6 milioni di tonnellate di uranio da estrarre (fonte Iaea). Visto che a questo ritmo consumiamo già un milione di tonnellate ogni venti anni, già sappiamo che abbiamo risorse per 120 anni al massimo. Molto meno se dovessimo aumentare il numero di centrali. Insomma chi dovesse entrare oggi nel mercato si troverebbe in fondo alla fila, con altissimi costi e prospettive di dover buttare tutto tra un secolo. Si aggiunga che ora sta emergendo il rischio tangibile legato alla cybersecurity: secondo un rapporto datato settembre 2022 dell’Us Government Accountability Office la maggior parte delle centrali atomiche americane non rispettano gli standard di sicurezza informatica, usando spesso come software quello della Microsoft, come in un ufficio qualunque.
Il caso Italia
Prima di progettare nuove centrali bisogna smantellare quelle vecchie: Trino (VC), Caorso (PC), Latina e Garigliano (CE) e alla messa in sicurezza del materiale radioattivo presente negli impianti legati al ciclo del combustibile nucleare: Eurex di Saluggia (VC), ITREC di Rotondella (MT), Ipu e Opec a Casaccia (RM) e FN di Bosco Marengo (AL). L’incarico è stato affidato alla Sogin nel 2001, prevista la fine lavori nel 2019 e i costi con un prelievo in bolletta (3,5 miliardi) a carico dei contribuenti. Ebbene, a fine 2021 la Sogin ha completato solo il 30% del lavoro. Secondo il rapporto del 2021 della Commissione parlamentare sulle ecomafie l’uscita dal nucleare slitta al 2035 (dovremmo fare in 12 anni il 70% del lavoro, dopo averne impiegati il triplo per farne il 30%) e costerà 7,9 miliardi. È il caso di ricordare che l’impianto di Saluggia è considerato una bomba ecologica e già dal ‘77 la prescrizione prevede la solidificazione dei rifiuti liquidi entro 5 anni. Sono ancora lì. Caso unico al mondo.
Nel 2022 la società statale è finita in commissariamento e a coordinare i lavori di accelerazione è stato designato il dirigente che al momento del commissariamento era l’amministratore delegato di Sogin. Ogni commento è superfluo. Inoltre, dopo tanti anni, il deposito dove custodire i rifiuti radioattivi non è ancora operativo. Di fronte a questa totale incapacità di gestione è complicato far digerire una nuova eventuale stagione nucleare. Promettente invece la sperimentazione della fusione nucleare (che non c’entra nulla con la fissione), di cui si parla molto, e che è attesa se va bene entro una trentina d’anni. Il dato certo è che comunque non potrà coprire il fabbisogno energetico globale ed è pensata come uno stabilizzatore delle risorse rinnovabili, ma non costanti (sole, vento, acqua). Ha senso dunque spingere sulle politiche di risparmio energetico, su maggiori investimenti nelle rinnovabili e sulla ricerca, proprio perché il progresso tecnologico può rendere possibile quello che oggi ancora non lo è.
Riceviamo e pubblichiamo:
Ci consenta qualche opportuna precisazione dei contenuti dell’articolo:
1) Le centrali cui ci si riferisce, quando si parla di «ritorno al nucleare» non sono quelle di quarta generazione, ma di terza generazione: progettate dai primi anni 2000 e oggi in costruzione. Quindi la prima correzione è: «Si, il nucleare pulito e sicuro esiste». È fatto di 56 nuove centrali in costruzione nel mondo (29 programmate e decise in Europa). Grazie ad esse e alla decisione di allungare la vita operativa del 60% delle centrali oggi attive (423), la potenza nucleare installata nel mondo è prevista più che raddoppiare (da 390 GW a 830 GW) al 2050. Portando l’incidenza del nucleare nella generazione elettrica mondale dal 10 al 13%.
2) È falso portare ad esempio dei tempi e dei costi delle nuove centrali in costruzione, l’esperienza della centrale di Flamanville (Francia). Che era il primo esemplare di una nuova serie. Dopo di essa, impianti dello stesso tipo sono stati costruiti, in numeri notevoli in Russia, Cina, Corea del Sud, Emirati Arabi e hanno rispettato tempi e costi preventivati.
3) Le centrali già esistenti o in costruzione di terza generazione sono sicure? Il maggior investimento, in progettazione e innovazioni tecniche e ingegneristiche ha riguardato i sistemi di sicurezza. Che, in queste nuove centrali, abbattono i rischi incidentali ipotizzabili a minimi sconosciuti ad ogni altro impianto energetico o industriale conosciuto.
4) Nemmeno per la quarta generazione è corretto parlare, come fa l’articolo, di modelli o impianti «inesistenti». Basterebbe consultare il data base della IAEA (PRIS) per rendersi conto che sono già circa otto i reattori di 4 generazione in operazione o in costruzione (Russia, Cina, India) o in avanzata progettazione in Usa (ad esempio il reattore della TerraPower, partecipato da Bill Gates) e in altri paesi. Su alcuni dei futuri prototipi di 4 GEN c’è, persino, una leadership italiana.
5) La quarta generazione, dunque, esiste. Essa replicherà la sicurezza, molto elevata, delle attuali centrali di terza generazione, ma porterà a innovazioni sull’utilizzo del combustibile nella direzione della maggiore efficienza, del riciclo e dell’abbattimento dei rifiuti generati e da smaltire.
6) Il gas Xenon non è una materia prima rara che serve al processo nucleare e da approvvigionare. Al contrario è un prodotto di risulta e pure dannoso al processo nucleare. Che, al contrario di quello cui gli autori alludono, ha il più basso fabbisogno tra tutti gli impianti energetici, di materie prime «rare».
7) Quanto all’uranio. Non è vero, come si afferma, che presenta alcuna criticità. L’articolo riconosce che la domanda attuale di uranio conta su riserve esistenti per circa 120 anni di attività. È poco? Un eventuale aumento della domanda, dovuto alle nuove future costruzioni nucleari, non cambia la situazione. Il combustibile uranio pesa solo per il 5% nella contabilità di un impianto nucleare (il gas pesa per l’80% negli impianti termici fossili). Le quantità di uranio utilizzate sono sempre molto limitate, data la densità energetica del minerale (un grammo di uranio produce l’equivalente di 2800 kg di carbone). Le riserve stimate (oltre quelle accertate per 120 anni) e che si attiverebbero in caso di aumentata domanda, sono pressoché infinite. Infine, le aree di approvvigionamento, che l’articolo ricorda, non presentano alcuno dei rischi di approvvigionamento noti per le fonti fossili o per le materie prime di quelle rinnovabili.
8) Infine, ci sfugge il motivo per cui i ritardi nello smantellamento delle centrali dismesse dovrebbe, come l’articolo afferma, il ricorso ad un nuovo nucleare in Italia. Il decommissioning, in ogni paese industrializzato procede, contestualmente, alla costruzione di nuove centrali. Piuttosto ci si batta per la costruzione, finalmente, del Deposito Nazionale dei rifiuti. Opera dovuta, utile e persino, spesata.
Umberto Minopoli Presidente Associazione Italiana Nucleare.
Punto 1): non c’è nessuna confusione. L’articolo chiaramente parla delle centrali in essere o in apertura come quella di Flamanville, tanto che quelle di quarta generazione, fatte salve le sperimentazioni di cui si parla sebbene senza entrare nel dettagli, sono chiaramente rinviate al futuro (il consenso è che ci vorranno altri 10-15 per averle attive). Dunque saranno sicure le centrali del futuro? Come scriviamo, vedremo. Parliamo però di fatti, oggi.
Punto 2): non c’è niente di falso. Il capitolo dedicato ai costi inizia sottolineando che è molto difficile dare una stima dei costi e si porta come esempio uno dei principali progetti. Il fatto che nemmeno la Francia sappia stimare i costi di una centrale è particolarmente significativo per tutti, vista la loro esperienza.
Punto 3): la sicurezza sulla carta. La storia delle centrali atomiche parla chiaro: l’incidente di Fukushima era considerato impossibile. Poi è avvenuto. Si impara sempre. Ma nuovi rischi sorgono.
Punto 4): le centrali di quarta generazione di cui si parla sono prototipi, dunque sperimentali. Come correttamente riportato.
Punto 5): quando ci saranno lo vedremo.
Punto 6): lo Xenon. L’articolo riportava effettivamente un’ inesattezza. L’articolo è stato corretto stamane appena segnalato. Grazie.
Punto 7): tutte le considerazioni sulla disponibilità dell’uranio e sulla stima di un suo esaurimento sono riportate nel report Uranium 2020 dell’Aiea.
Punto 8): l’inefficienza e i ritardi nel decomissioning sono evidentemente un segnale di quanto sia difficile il rispetto dei tempi e dei costi in Italia, non solo su questo tema.