19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Macaluso

La cinghia di trasmissione tra problemi, bisogni, proposte del popolo e quella sinistra che tradizionalmente aveva fatto da tramite con le varie sedi decisionali, locali e centrali, ha smesso di funzionare ed è stata ben imitata e perfino perfezionata da M5S e Lega


Il 3 marzo si terranno le primarie del Partito democratico. I candidati, salvo ritiri dell’ultimo momento, sono otto, di cui quattro «in coppia»: Nicola Zingaretti, Maurizio Martina con Matteo Richetti, Roberto Giachetti con Anna Ascani, Dario Corallo, Francesco Boccia, Maria Saladino. Basta scorrere i nomi per capire immediatamente due cose: manca la figura di un vero leader e, di conseguenza, l’appuntamento appassiona i militanti quanto e meno di un rogito notarile. Il Pd non sa più scaldare i cuori, ha progressivamente smarrito la strada della sinistra, ha lasciato che un Movimento senza storia si intestasse quella «diversità» rivendicata — non senza scatenare polemiche anche interne al Pci — da Enrico Berlinguer. Di più: ha lasciato che fosse buona parte del suo stesso popolo a punirlo per «l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti». Un suicidio.
In un volumetto edito da Einaudi nel 2013 e ristampato più volte, Miguel Gotor ha raccolto una serie di interviste, di scritti e discorsi di Berlinguer compresi tra il 1973 e il 1983, dunque un anno prima della sua morte. Si intitola «La passione non è finita» ed è una frustata di intelligenza, di caparbietà, di passione e di lungimiranza alla quale gli otto candidati alla guida del Pd non dovrebbero sottrarsi. Lungi dal volerlo sacralizzare — da questo Gotor mette giustamente in guardia, invitando piuttosto a storicizzarne il percorso — le riflessioni di Berlinguer identificano i tratti inequivocabili di un leader. Ne mettono talvolta a nudo la solitudine ma anche il coraggio di sfidare l’accusa di anti-modernità, battendola sul piano dell’analisi prospettica. Come quando, in un’intervista dell’83 a Ferdinando Adornato sull’Unità, avverte che «non si può accettare che la democrazia elettronica sostituisca tutte le forme della vita democratica. (…) Ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternativa alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo si possa mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone». Questi sono i «pensieri lunghi» — cogliere un tema con 35 anni di anticipo — che fanno la differenza tra un politico qualsiasi e un leader. Molto è stato detto e scritto sulle colpe e i colpevoli del lento declino di Pci, Pds, Ds, Pd, sull’identità sbiadita di un’idea di società, sull’incapacità diventata patologica di rigenerare la sinistra. Partiti, sindacati, cooperative, la galassia fiancheggiatrice dell’associazionismo, un intero mondo si è piegato sotto i colpi delle parole d’ordine forti che la crisi economica mondiale ha aiutato a forgiare alle forze sovraniste.
Il progressivo ritirarsi dal territorio, dai presidi locali, dai quartieri, dalle sezioni, ha reciso un legame fatto non solo di solidarietà e fiducia ma di aderenza alle realtà del vissuto quotidiano della gente. La cinghia di trasmissione tra problemi, bisogni, proposte del popolo e quella sinistra che tradizionalmente aveva fatto da tramite con le varie sedi decisionali, locali e centrali, ha smesso di funzionare ed è stata ben imitata e perfino perfezionata da M5S e Lega. I risultati, se non immediati, sono stati comunque veloci e consistenti. Quelle forze sono oggi al governo, forzatamente insieme ma con il piglio di chi vuole dare al popolo ciò che il popolo chiede. Il che non è privo di rischi se chi chiede è pieno di rabbia (solo in parte giustificata) e chi governa ha più fretta di smontare l’esistente che capacità di ricostruire meglio e in sicurezza.
In questo perimetro, assistere alla competizione dentro il Pd è uno spettacolo che — lontano da quello gioioso e pieno di orgoglio dell’epoca Prodi-Veltroni — lascia indifferenti se non perplessi. Anche perché se il cast non è da Oscar — difficile immaginare uno degli otto tenere testa a Salvini in un confronto televisivo, tanto per dire — è sul piano della piattaforma e della sua novità che c’è odore di naftalina. Come un albero malato da salvare va potato senza pietà, il Pd dovrà forse tagliare altri rami solo apparentemente sani e utili. E torna in mente una bella frase del film «La Grande Bellezza»: «Che cosa avete contro la nostalgia, eh? È l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro, l’unico». Vero, ma pericoloso.

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