16 Settembre 2024

Lo choc e la paralisi dei primi momenti dopo il massacro si sono trasformati in rabbia e determinazione

Solo due leader stranieri hanno parlato per tre volte davanti al Congresso americano in seduta plenaria: Winston Churchill (nel 1941, 1943, 1952) e Benjamin Netanyahu (1996, 2011, 2015). Il primo ministro israeliano è un attento e ammirato lettore degli scritti lasciati dal premier britannico, i sei volumi di «La Seconda Guerra Mondiale» sono lo sfondo dei suoi proclami alla nazione dall’ufficio a Gerusalemme.
È consapevole — non può non esserlo — di non esser riuscito a salvare i civili e i soldati intrappolati nel deserto davanti a Gaza come il suo modello potè fare per le truppe bloccate sulla spiaggia di Dunkirk, deve risollevare — non può non riuscirci — il Paese affogato nell’orrore terrorista di sabato mattina. Un orrore che si ingigantisce di ora in ora con i racconti dei militari entrati nei villaggi invasi dagli jihadisti, con le testimonianze dal kibbutz Kfar Aza dove hanno visto i cadaveri di bambini macellati.
Le strade di Tel Aviv, la città più vecchia dello Stato di Israele anche se ne resta la bambina ribelle, sono deserte nella notte dell’ora più buia. I ristoranti chiusi, le cucine al lavoro. Ci sono da preparare i pranzi al sacco per i soldati che partono verso il fronte a sud, da sfamare le centinaia di famiglie che sono state evacuate da quello stesso fronte. Lo choc e la paralisi dei primi momenti dopo il massacro sono diventati rabbia e determinazione. Netanyahu ha dichiarato da subito lo stato di guerra, ripete due volte la parola nell’annuncio pubblico. Invoca l’unità nazionale. Non ce n’era bisogno: i soldati della riserva, le forze speciali, i piloti dell’aviazione, quelli che negli ultimi dieci mesi hanno guidato le contestazioni contro il piano giustizia del governo considerato un golpe antidemocratico, si sono presentati alle caserme senza aspettare la telefonata dal comando. Le chat che fino alla settimana scorsa coordinavano i cortei e gli slogan vengono usate per organizzare la distribuzione di cibo, per allestire i centri dove i famigliari si accalcano a chiedere notizie su chi resta disperso.
Il movimento di protesta ha marciato da gennaio sotto il bianco e l’azzurro delle bandiere israeliane perché — ha commentato lo scrittore Etgar Keret — «la più grande vittoria di questo gruppo enorme è essersi ripreso il vessillo nazionale, prima era sbandierato dalla destra. Adesso siamo noi i patrioti». Nelle ore di caos e disordine, del panico nelle voci che chiamano i centralini della polizia a chiedere «dove siete, dov’è l’esercito, siamo barricati in casa», questi uomini e donne si sono ripresi anche lo Stato, ammutolito, assente davanti alle telecamere, nessun ministro disposto a mettere la faccia sul disastro più grande nella Storia del Paese, a piangere in diretta quei morti — per la maggior parte civili — che sono oltre mille e potrebbero diventare molti di più.
I genitori hanno accompagnato in auto, sotto i lanci di razzi, i figli alle caserme e ai punti di raccolta, lo sconquasso iniziale ha deragliato il sistema, lo racconta anche la lista funebre di soldati delle squadre d’élite spediti subito nelle aree dell’assalto e caduti in imboscate. Comandanti in pensione, accusati dagli ultranazionalisti di essere pacifisti per aver sostenuto l’opposizione al governo Netanyahu, si sono fatti prestare un fucile mitragliatore e sono scesi a Sderot, Ashkelon, Ashdod, Be’eri, Zikim, i toponimi di una periferia sabbiosa che ora è il centro del Paese. Una periferia forse trascurata perché la strategia diplomatica di Netanyahu scrutava l’orizzonte più ampio degli accordi di Abramo per il «Nuovo Medio Oriente», perché la sua tattica politica restringeva lo sguardo all’accontentare le richieste degli oltranzisti nella coalizione, i rappresentati dei coloni preoccupati dalle violenze in Cisgiordania. Hamas sembrava sedata dalle valigie zeppe di milioni di dollari portate ogni mese dentro la Striscia dall’ambasciatore del Qatar, con il beneplacito del primo ministro israeliano e dei suoi consiglieri.
È in una delle comunità a sud finita sabato sotto assedio che sessantasette anni fa scende dalla jeep il generale dalla benda nera sull’occhio sinistro. Vuole commemorare Roy Rotenberg, la guardia del kibbutz Nahal Oz ucciso dagli arabi il 29 aprile del 1956, ventunenne, in un raid oltre il confine. Quello che Moshe Dayan davanti alla tomba chiama «il destino della nostra generazione» ha inseguito i giovani venuti dopo. Nelle 258 parole dell’orazione funebre c’è — se non il rispetto — il tentativo di comprendere le motivazioni di «chi ci odia»: «Non biasimiamo chi lo ha ammazzato. Da otto anni ormai stanno seduti nei campi di Gaza, a guardare come abbiamo trasformato i loro villaggi, le terre dove hanno vissuto i loro padri, nella nostra casa». In quei campi di Gaza, ormai addensati di palazzoni, vivono oltre 2 milioni di palestinesi, adesso sotto i bombardamenti, schiacciati dalle prevaricazioni degli integralisti, stretti nell’embargo imposto da Israele e dall’Egitto da quando nel 2007 Hamas ha tolto con le armi il potere nella Striscia al presidente Abu Mazen.
Dayan non intende prestare la voce alle ragioni del nemico, il suo è un appello all’allerta permanente: «Senza l’elmetto d’acciaio e la bocca del fucile non potremmo piantare un albero o costruire una casa. Questa è la nostra scelta — di essere pronti e armati, duri e tenaci — altrimenti la spada ci cadrà dalle mani e le nostre vite saranno troncate». Spade di ferro. Così lo Stato Maggiore ha nominato quest’ennesima guerra che gli israeliani considerano esistenziale: il timore non è la sconfitta, è il rischio di perdere la nazione in cui vivevano. Sanno di dover combattere uniti i fondamentalisti, vogliono poter ritrovare il senso di collettività che li ha sempre tenuti insieme.

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