Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Macaluso
La scelta dei candidati sia a destra sia a sinistra non è entusiasmante. I partiti hanno perso l’occasione per puntare in alto. Ora si può dire solo: vinca il meno peggio
C’era da aspettarselo: scoccati quattro mesi circa dalla sua nomina a Commissario straordinario del Comune di Roma, il prefetto Francesco Paolo Tronca ha annunciato urbi et orbi di essersi innamorato del Campidoglio. L’enorme carico di problemi e di insidie, lungi dallo scoraggiarlo, ha nutrito il desiderio di far qualcosa per questa città abusata. Quello che era meno prevedibile è che molti romani, tanti, ricambino questo sentimento, percependo Tronca come l’uomo che, dopo tanto tempo, sta seriamente provando a invertire una rotta pericolosamente orientata verso un buco nero finanziario, gestionale, di vivibilità e di immagine.
Qualcosa si muove, piccoli (talvolta impercettibili) segnali cominciano a dare la sensazione che del buono si possa fare, che non è vero — come da diffusa litania un po’ qualunquista — che «chiunque sieda lassù ormai può fare ben poco», che tutto è perduto. L’energia e la concretezza del prefetto venuto dal Nord (ma di sangue palermitano) cominciano a diffondere come un venticello l’idea che non sarebbe male se la sua permanenza in Campidoglio fosse prolungata. In un bar, su un taxi, all’ufficio postale o dal barbiere, capita di sentir caldeggiare questa ipotesi che poggia su due pilastri: la crescente fiducia verso l’uomo e una conferma dell’assunto che, fuori dalle pastoie della politica, tutto sia più facile (e «pulito»). Un crinale pericolosissimo, certo, ma che non arriva per caso e all’improvviso. Dopo quello che si è visto e sopportato per troppo tempo nel governo della Capitale, non può stupire che l’antipolitica sia vissuta come un fresco, ristoratore «ponentino».
Di più. I partiti sembrano non aver compreso fino in fondo questo stato d’animo, che non è proprio solo degli abitanti delle sterminate periferie, ma che alberga nella parte più colta e benestante della città. Del resto, sempre di cittadini romani si tratta, i disagi sono più o memo gli stessi per tutti, come una feroce, democratica livella al ribasso. A fronte di tutto questo, basta guardare quello che sta accadendo nei vari schieramenti — le tattiche, le accuse, i candidati veri o presunti — per capire come mai tanta gente provi diffidenza, sfiducia o perfino disgusto nei confronti di questa politica e preferisca un facile «lasciateci Tronca». Del resto, a destra non si capisce cosa stia accadendo (non lo capiscono neanche loro): c’è un candidato ufficiale — Guido Bertolaso — che si filano in pochi e attaccano in molti, accanto al quale fioriscono le ipotesi più divertenti: la milanese (una milanese sindaco di Roma?) Irene Pivetti, molti anni fa presidente della Camera per caso, poi scomparsa dai radar della politica e nota più che altro per essere la sorella della simpatica attrice Veronica; Francesco Storace, (in)dimenticato presidente della Regione Lazio più apprezzato per le battute fulminanti che per le cose fatte; Alfio Marchini, che si presenta da solo, che non è di destra ma che viene visto da molti elettori moderati come l’unico volto in grado di opporsi al Pd e al M5S.
Il Movimento di Beppe Grillo, ha indicato — con 1.764 voti, non proprio a furor di popolo — l’ex consigliera comunale Virginia Raggi come propria candidata. Le polemiche hanno subito investito la giovane avvocatessa per il fatto di aver lavorato in uno studio legale che ha assistito Cesare Previti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Mediaset tutta. Il che non pare aver scalfito la possibilità del Movimento di conquistare Roma (un voto che premia come già in passato il «marchio» più che i singoli) ma certo non garantisce che il profilo sia quello giusto per cimentarsi con una mission impossible come il governo della Capitale. E veniamo al Pd, che sceglierà nel fine settimana il suo candidato. A correre sono in sei ma il vero duello è tra Roberto Giachetti, sostenuto da Renzi, e Roberto Morassut, sul quale convergeranno dalemiani, bersaniani, veltroniani e — insomma — tutto ciò che renziano non è. Un bel duello, tra due persone perbene ma che, dal punto di vista dello spessore politico e della competenza di gestione hanno la consistenza delle ombre di quello che dovrebbe essere il prossimo sindaco di Roma. Quello della Rinascita. Con tutto il rispetto, non assomigliano neanche lontanamente a Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Se questo è il quadro — e, senza presunzione di analisi, lo è — non c’è da aspettarsi la corsa alle urne. C’è, semmai, da constatare che, ancora una volta, i partiti hanno perso l’occasione per puntare in alto, per mettersi in gioco con la scelta di personalità più che di persone. Certo, non sfugge che, con questi chiari di luna, sarebbe stato difficile convincere qualche peso massimo a candidarsi ma proprio questa è la controprova della scarsa credibilità di un intero sistema politico. Dunque, che dire: vinca il meno peggio.