Fonte: Corriere della Sera
di Pierluigi Battista
A due mesi dall’ingresso trionfale in Aula Giulio Cesare, accompagnati dal grido ritmato «onestà onestà», i Cinque Stelle si sono asserragliati nella fortezza del silenzio. Hanno reagito come se non governassero questa città. Raggi deve cambiare strada
Non sarà il requiem troppo precoce per un’illusione sbocciata appena due mesi fa, come già ci si precipita a dire con un certo furore da tifoseria, ma certo questa storia brutta, bruttissima del capo di Gabinetto e dell’assessore al Bilancio che lasciano la sindaca Raggi sembra un esempio da manuale di harakiri politico. Magari la giunta 5 Stelle troverà nuove soluzioni e nuovi nomi. Resta però indelebile la sensazione che il nuovo governo romano di Virginia Raggi sia partito sovraccarico di pesi, dilaniato da faide, lacerato tra le diverse fazioni che incarnano le anime multiformi di un Movimento finora tenuto assieme dal carisma di Beppe Grillo. Insomma, la sensazione sconcertante che i portatori della rivoluzione e del nuovo, gli apostoli della discontinuità con il passato del malgoverno capitolino non siano affatto liberi dai vincoli degli apparati, di un Direttorio lottizzatore, dei gruppi di potere che con il Campidoglio espugnato sognano l’occasione di una vita.
Una partenza peggiore, la sindaca Raggi non poteva metterla in scena. Poi arrivano anche le dimissioni dei vertici Atac e del nuovo vertice Ama. Ma non è così catastrofico, anzi: per come hanno lasciato Roma sommersa dai rifiuti e paralizzata da un trasporto pubblico vergognoso, la rottura con il passato sembra quasi una discontinuità salutare. Ma il capo di Gabinetto e l’assessore al Bilancio con deleghe importantissime dovevano essere il benvenuto in una nuova stagione. Ma la nuova stagione deve ancora cominciare, e se la sindaca Raggi non si decide a prendere lo scettro del comando non avrà mai inizio, e finirà in un pantano. Ieri militanti e consiglieri 5 Stelle sembravano aver perso tutto lo smalto, la sicumera e persino l’arroganza dei primi giorni dopo il clamoroso plebiscito che li ha scaraventati al comando del Campidoglio. Quell’occupazione fragorosa dell’aula Giulio Cesare, con le sparute opposizioni silenti, schiacciate, umiliate. Quella presenza quasi militare dei vertici del Movimento. E il grido ritmato «onestà, onestà» mentre la sindaca portava suo figlio in giro a mostrare i luoghi in cui la madre avrebbe trascorso il suo tempo a mettere in riga Roma, a liberarla dai potenti che l’avevano saccheggiata e sfigurata. Tutto questo sembrava ieri già appartenere a un’antica era geologica. E sono passati neanche due mesi.
Ieri le truppe grilline si sentivano assediate. Devote al mito della trasparenza, si acquattavano in riunioni segretissime dove veniva allestito il rituale della resa dei conti da consumarsi al riparo da sguardi indiscreti. Le opposizioni incalzavano, ribaltando lo schema dei mesi scorsi, e i Cinque Stelle si asserragliavano nella fortezza del silenzio. Hanno reagito come se non governassero questa città. Così come dopo le elezioni di giugno non hanno agito come se dovessero governare questa città, ma si sono rannicchiati nelle loro ossessioni sugli emolumenti (come «gli scontrini» d’antan), sulla purezza da conservare, sulla rivoluzione da radicalizzare. Perdendo tempo sulle nomine come nemmeno ai tempi del manuale Cencelli, disegnando geometrie di potere e di sottopotere incompatibili con il ruolo di tecnici competenti che il magistrato Raineri e l’assessore Minenna avrebbero dovuto sostenere per dare sostanza e credibilità a una svolta che Roma attendeva con angoscia quasi, regalando alla sindaca Raggi un consenso enorme, quasi sproporzionato: per dire la disperazione che le esperienze delle giunte precedenti, di destra e di sinistra, avevano depositato. E anche ieri così, come se la spaccatura di una Giunta appena formata fosse una questione da regolare all’interno delle pareti di casa.
Virginia Raggi ha spiegato (alle 4 del mattino, con un commento su Facebook) di aver agito sulla Raineri dopo il parere dell’Anac. E non poteva consultarla prima, l’Anac? E come è possibile che soltanto pochi giorni fa, di fronte ai borbottii che si levavano per gli emolumenti troppo cospicui che avrebbero gratificato il capo di Gabinetto Raineri, Virginia Raggi abbia detto che la competenza ha un prezzo, salvo poi fare una marcia indietro clamorosa senza nemmeno valutare la sequenza di reazioni a catena che ne sarebbe seguita? Ecco, è questa incertezza ondivaga, questo andirivieni frastornante che nessuno si sarebbe aspettato da un Movimento giovane e irruente e che invece rischia di impantanarsi anzitempo nelle furbizie della non decisione, come sta accadendo per la candidatura romana alle Olimpiadi del 2024, procrastinando, temporeggiando. Concedendo molto alla furbizia di piccolo cabotaggio. Sembra talmente presa dai problemi interni, la sindaca da appena due mesi, da non riuscire nemmeno a comunicare qualche risultato positivo. Come lo stupore di molti romani che tornando dalle vacanze hanno visto la città più pulita e i cassonetti meno intasati di schifezze e si sono chiesti increduli e scettici: durerà?
Non è durata nemmeno la luna di miele che solitamente si concede agli esperimenti nuovi e alle persone che rappresentano una novità. La fuga di ieri, assessori ma anche vertici delle partecipate, dà l’impressione di un esperimento già molto in affanno, e non per la cattiveria dei media, ma per autocombustione interna. Ieri, nelle segrete stanze, si sono sentite urla altissime tra i maggiorenti del Movimento. E Paola Taverna ha approfittato della situazione difficile per dare un’altra stilettata alla Raggi, sua nemica giurata. La quale Raggi, però, o cambia subito, in tempi strettissimi, decisamente strada, o riprende nelle sue mani il bastone del comando e offre ai romani la sensazione di qualcosa per cui valga la pena andare avanti. Oppure verrà risucchiata nelle sabbie mobili di un esperimento fallimentare. Per il Movimento 5 Stelle sarebbe una catastrofe, e questo 1 settembre ne è un primo assaggio. Per Roma e per i romani anche, e questa dovrebbe essere la cosa che conta di più.