Fonte: La Repubblica
di Alessio Candido
Il ministro dell’Interno in visita a Palmi e poi alla tendopoli di San Ferdinando. Commenta anche la vicenda dell’ergastolana che vive nel palazzo confiscato dove sorgerà il commissariato: “Incredibile”
C’è chi gli allunga regali, chi chiede autografi, chi mendica un selfie. È una folla degna di una rockstar quella che attende il ministro dell’Interno Matteo Salvini a Palmi, a pochi chilometri da Reggio Calabria, di fronte al palazzo sequestrato al clan Gallico e destinato – quanto meno sulla carta – a diventare un commissariato. “Servono due milioni di euro, ma li troveremo”, assicura il ministro dell’Interno mentre visita l’immobile, da cui – promette – verrà allontanata anche la 92enne Lucia Giuseppa Morgante, ergastolana matriarca del clan Gallico, cosi malata da aver ottenuto un differimento della pena per motivi di salute.
“SFRATTEREMO LUCIA MORGANTE”
“Penso che lo Stato abbia più diritti di un’anziana ergastolana, con tutto il rispetto per la signora. È una delle tante situazioni paradossali che intendiamo scardinare. Il posto giusto per gli ergastolani è la galera”, commenta il ministro, che ne ha anche per i due figli della donna, Domenico e Giuseppe Gallico, entrambi detenuti al 41 bis ma qualche settimana fa, su concessione del giudice di sorveglianza di Sassari, tornati a salutare la madre. “È incredibile che lo Stato spenda migliaia di euro per permettere a delinquenti ergastolani di venire a incontrare la loro madre altrettanto delinquente ed ergastolana” esclama Salvini. La signora non si fa vedere. Le finestre della casa sono chiuse, le tende tirate, le serrande mezzo abbassate. Non fosse per le curatissime piante in balcone, quell’appartamento al primo piano sembrerebbe vuoto, al pari di quelli ai piani superiori, dove dei Gallico rimangono solo polvere, foto e diplomi incorniciati alle pareti, che qualche funzionario tenta di far sparire prima che il ministro passi da quelle stanze.
DEPUTATI IMBARAZZANTI
“La mafia è e la ‘ndrangheta mi fanno schifo” ripete come un mantra Salvini durante la visita. “La ‘ndrangheta è una merda – dice testualmente – un cancro, che si è allargato a tutta l’Italia. Io però sono testone e continuerò a combatterla fino a che non avremo portato via anche le mutande a questa gente” tuona a favore di telecamera. Ma alle domande sulle parentele pericolose del suo deputato e coordinatore regionale Domenico Furgiuele non risponde. “Se le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, figuriamoci quelle dei suoceri”, glissa Salvini, dimenticando forse il ruolo ricoperto per lungo tempo da Furgiuele all’interno dell’azienda del suocero. E poco sembra importargli anche delle informative che raccontano come il neodeputato leghista calabrese abbia ospitato nel suo albergo i killer che il 6 luglio 2012 hanno ucciso Davide Fortuna. “È indagato? No. E allora di cosa stiamo parlando? – ribatte Salvini a chi gli ricorda la vicenda -” Quando, e se, ci saranno dei fatti sarò il primo a intervenire, per adesso sono soltanto illazioni, non posso badare a questioni di opportunità, preferisco la sostanza”.
Nella sua Lega, sostiene, non c’è spazio neanche per le idee dello storico ideologo del Carroccio Gianfranco Miglio, che teorizzava la necessità di una “costituzionalizzazione delle mafie” per il Sud. “Pace all’anima sua.È il passato, guardiamo avanti” dice. E passato – sostiene – sono anche i 49 milioni che lo Stato pretende che la Lega restituisca. “Non ci sono più, rassegnatevi”, dice il ministro dell’Interno.
BAGNO DI FOLLA
Poi gira le spalle e va a tuffarsi fra la folla che lo acclama e lo attende. “Manda le ruspe” grida qualcuno nascosto nel mucchio. E lui ride e promette “arriveranno, arriveranno”. Poi bacia, abbraccia, firma autografi, si concede per foto e selfie e infine incontra brevemente una delegazione dei portuali di Gioia Tauro, da tempo sul piede di guerra per i tagli e i ridimensionamenti di organico. “La competenza è del ministero delle Infrastrutture ma – assicura Salvini – messaggio ricevuto”. C’è tempo per qualche altra stretta di mano, poi il corteo di auto e volanti che scorta il ministro e le autorità locali si dirige a tutta velocità verso la tendopoli di San Ferdinando, dove viveva Soumayla Sacko, il giovane sindacalista maliano ucciso il 2 giugno scorso. Ma di lui il ministro non sembra ricordarsi.
LA VISITA NEL GHETTO
Scorta quadruplicata, un plotone di poliziotti in tenuta antisommossa con caschi e scudi a proteggerlo, Salvini si avventura nel ghetto. Ormai sono rimasti in pochi a viverci, i più sono stanziali, in attesa del rinnovo dei documenti o magari si sono infortunati durante l’inverno e non hanno le forze per spostarsi nel foggiano o in Sicilia per la stagione dei pomodori. Una delegazione si avvicina al blindatissimo corteo ministeriale e uno dei braccianti cerca di spiegare a Salvini che il ghetto non è una scelta, ma l’unica soluzione di chi viene sfruttato per pochi spicci nei campi. “Si soffre a vivere così, non siamo animali” dice. “Chi ha i documenti e può avere un’altra scelta si sposterà da un’altra parte” ribatte il ministro, che giura di smantellare a breve la baraccopoli. “È vero che vi propongono e vi proporranno delle situazioni diverse ma voi volete rimanere qui?” chiede Salvini. E poi, prima ancora che nel suo italiano precario uno dei braccianti possa spiegare, attacca “Se non hai i documenti, amico mio, la legge è la legge”. Ma molti lì sono regolari, altri avrebbero il diritto di esserlo se regolarmente contrattualizzati e non sfruttati a giornata, senza contratto né diritti.
“Ragazzi – dice paterno il ministro – segnalate quelli che sfruttano le persone. Io vi chiedo solo di denunciare se ci sono delle irregolarità e chi sfrutta. Speriamo di riuscire a fare qualcosa”. Ma le parole di Salvini non sono servite a placare gli animi. Rabbia e la frustrazione per le condizioni di vita e lavoro sono esplose in una piccola, pacifica contestazione. Salvini, blindato da un fittissimo cordone di agenti, ha lasciato la tendopoli accompagnato da chi gli urlava di andar via. Alcuni braccianti lo hanno seguito fino all’ingresso della nuova tendopoli per tentare (invano) di parlarci.
SELFIE NELLA NUOVA TENDOPOLI
Nell’insediamento poco distante messo su dalla prefettura l’estate scorsa, Salvini si è rilassato. Quella tendopoli è blindata. Nessuno entra o esce senza passare un badge, tutti vengono identificati e ogni presenza viene verificata. Forse per questo il ministro dell’Interno di concede addirittura qualche selfie con alcuni degli ospiti. “Questo è il risultato dell’immigrazione fuori controllo, che porta al caos – afferma, facendo un bilancio della visita nei due insediamenti – Chi ha diritto a stare qui è giusto che chieda diritti, che non ci siano sfruttamento, prostituzione, spaccio. Vedremo per un’immigrazione sotto controllo. La situazione nella vecchia tendopoli è pessima e l’unica soluzione è andare a beccare tutti gli sfruttatori, ma questo già si sta facendo, e limitare i nuovi arrivi” dice il ministro, andando via. Ad attenderlo fuori, un piccolo gruppo di volontari e braccianti in maglietta rossa che urlano “Restiamo umani”. Salvini passa, li guarda e li ignora. “Ognuno è libero di vestirsi come vuole, io oggi ho preferito il bianco per il caldo” dice a chi gli chieda un commento al riguardo. Ma il suo agguerritissimo staff, smartphone alla mano, pochi minuti dopo posta il video del piccolo gruppo in rosso, accompagnato da un commento velenoso, con tanto di emoticon sorridente a corredo. “Magliette rosse” incontrate oggi, fate ciao ciao!”.
LA COMMEMORAZIONE DEI BRIGADIERI FAVA E GAROFALO
L’ultima tappa del viaggio di Salvini nel reggino è una piazzola sull’A2. È lì che sorge la stele a memoria dei brigadieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo. Nel gennaio ’94 sono stati uccisi dalla ‘ndrangheta in uno dei tre agguati contro i carabinieri, serviti ai clan calabresi per certificare la propria partecipazione alla strategia degli attentati continentali, tramite cui mafie, settori dei servizi e della massoneria – ipotizza la procura che per questo ha portato a processo i boss Rocco Filippone e Giuseppe Graviano – miravano a imporre un governo amico. Un piano eversivo, che in una fase di poco precedente era stato portato avanti con la costruzione di leghe regionali, incaricate di spezzare in due l’Italia per regalare alle mafie una nazione.