I Livelli essenziali di assistenza, noti come Lea, sono le prestazioni sanitarie che ogni Regione è obbligata a garantire ai cittadini, gratuitamente o con il pagamento di un ticket. Parliamo di vaccinazioni, screening oncologici, visite dal medico di famiglia o dal pediatra, visite specialistiche, esami diagnostici, ricoveri e interventi chirurgici. Per verificare il rispetto di questi obblighi, dal 2001 è attivo un sistema di monitoraggio nazionale che valuta se – e in che misura – le Regioni raggiungono gli standard previsti. Gli indicatori vengono aggiornati periodicamente per rispondere ai bisogni della popolazione e sono suddivisi in tre grandi aree: prevenzione, assistenza territoriale e assistenza ospedaliera. I risultati possono essere rappresentati con tre colori: verde per le Regioni che rispettano i Lea, giallo per quelle con criticità e rosso per quelle inadempienti. L’ultimo monitoraggio, approvato l’11 febbraio 2025 dal Comitato permanente per la verifica dei Lea, mostra che otto Regioni non raggiungono i livelli minimi richiesti: si tratta della Provincia Autonoma di Bolzano, Valle d’Aosta, Liguria, Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia. I pessimi risultati hanno sempre una spiegazione. Vediamo cosa non sta funzionando.

Il Piano di rientro
A partire dal 2007, le Regioni con disavanzi sanitari vengono inserite nei Piani di rientro, si tratta di programmi di risanamento pensati per rimettere i conti in ordine, ma anche per migliorare l’offerta assistenziale (Finanziaria 2005, articolo 1, comma 174). Se si confrontano i risultati del monitoraggio Lea con l’elenco delle Regioni in Piano di rientro, emergono sovrapposizioni evidenti. Abruzzo, Molise e Sicilia sono in Piano di rientro dal 2007 e mostrano ancora oggi prestazioni insufficienti, la Calabria è entrata nel 2009 e anche qui i risultati sono negativi. La Liguria, pur avendo seguito un Piano di rientro soft tra il 2007 e il 2009, oggi si trova comunque in difficoltà. Lazio, Puglia e Campania, anch’esse in Piano di rientro, hanno fatto passi avanti negli ultimi anni, ma per molto tempo sono rimaste indietro come mostra un’analisi dell’Osservatorio Gimbe che fotografa l’andamento tra il 2010 e il 2019. Ancora oggi non sono nella parte alta della classifica nazionale: la Puglia è al decimo posto, il Lazio al dodicesimo e la Campania, che sta chiedendo di uscire dal Piano di rientro, al tredicesimo.
Ma cosa comporta davvero il Piano di rientro?

Niente sostituzioni dei pensionamenti
Un elemento chiave per comprendere le difficoltà di queste Regioni nel garantire i Livelli essenziali di assistenza è il blocco automatico del turn-over, che vuol dire non sostituire chi va in pensione, cosa che succede fino al 2019, quando il blocco viene meno per effetto del decreto-legge 35. Questo blocco riguarda in particolare proprio le Regioni sottoposte a Piano di rientro: in Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia il personale a tempo indeterminato del Servizio sanitario nazionale passa dai 197.532 medici, infermieri, amministrativi, ecc. del 2008 ai 165.428 del 2017. È una perdita di 32.104 professionisti, pari a un calo del 16,3%. In altre parole, su 100 medici e infermieri tagliati a livello nazionale, il 75% è in queste Regioni. Entrando nel dettaglio: tra il 2008 e il 2017 i medici diminuiscono del 18% e gli infermieri dell’11%, mentre i dirigenti non medici calano del 23% e il restante personale non dirigente del 20%. La Puglia, che invece è in Piano di rientro soft, perde solo il 4,8%.

I posti letto tagliati
Un altro indicatore importante che mostra le ripercussioni dei Piani di rientro riguarda la riduzione dei posti letto ospedalieri. A parità di condizioni di partenza rispetto alla media nazionale, nelle Regioni in Piano di rientro i tagli sono significativamente più pesanti: in queste aree è stato eliminato il 27% di posti letto in più rispetto alle altre Regioni. In termini numerici, la riduzione è di 0,59 posti letto ogni 1.000 residenti, contro i 0,43 tagliati nelle Regioni che non sono in Piano di rientro. Il risultato si riflette oggi sugli standard non raggiunti per i posti letto. Sono al di sotto della soglia minima di 3 letti per 1.000 abitanti dedicati ai ricoveri per acuti la Calabria (2,7), la Campania (2,8) e l’Abruzzo (2,9). Ancora più critica la situazione dei posti letto post-acuti, per i quali lo standard è fissato a 0,7 per 1.000 abitanti. Sotto questa soglia si trovano il Molise e la Campania, entrambe ferme a 0,4, seguite da Abruzzo, Puglia e Sicilia (0,5), e infine la Calabria.

Meno opportunità di cura
Un’ulteriore conseguenza dei Piani di rientro è il divieto imposto alle Regioni di sostenere spese sanitarie non obbligatorie e di introdurre nuove prestazioni oltre a quelle già previste dai Lea. In pratica, le Regioni in Piano di rientro non possono finanziare prestazioni aggiuntive, nemmeno quando rappresentano potenziali opportunità di cura per pazienti con gravi patologie. Per esempio, non è consentito coprire farmaci non ancora rimborsati dal Servizio sanitario nazionale, anche se potrebbero offrire benefici importanti per malattie rare o condizioni croniche gravi. Fino all’aggiornamento delle tariffe dei Lea, entrate in vigore nel gennaio 2025, le Regioni in Piano di rientro non potevano garantire esami e terapie offerte in molte altre aree del Paese. Non erano previsti, ad esempio, specifici test per la diagnosi di malattie rare, la tomografia ottica computerizzata utile per individuare retinopatie, glaucomi e maculopatie, oppure tecniche diagnostiche avanzate come la videocapsula endoscopica, che permette di esplorare l’intestino in modo non invasivo. A queste si aggiungono alcune delle prestazioni più innovative in campo oncologico, escluse per anni nelle Regioni in Piano di rientro: la radioterapia stereotassica e l’adroterapia, trattamenti indicati per pazienti con tumori inoperabili o resistenti alla radioterapia tradizionale. Il risultato è che i cittadini residenti in queste Regioni hanno avuto un accesso limitato all’innovazione diagnostica e terapeutica, creando disuguaglianze tra pazienti con le stesse patologie, e all’interno dello stesso Paese.

Meno soldi, più tasse
Infine per le Regioni in Piano di rientro c’è la perdita della quota premiale, ovvero quella parte del finanziamento del Servizio sanitario nazionale che viene attribuita solo a chi raggiunge determinati obiettivi di qualità ed efficienza. Per il 2024 questa quota vale 670 milioni di euro, pari allo 0,5% del livello complessivo di finanziamento. Le Regioni che non raggiungono gli standard richiesti non la incassano, con un impatto diretto sulla disponibilità di risorse per la sanità. Ma oltre al danno c’è pure la beffa. I Piani di rientro prevedono un aumento automatico della pressione fiscale regionale, proprio per contribuire al risanamento dei conti. In particolare, si stabilisce l’incremento di 0,15 punti percentuali sull’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive) e di 0,30 punti sull’addizionale regionale Irpef, rispetto ai livelli base (legge 311/2004, Finanziaria 2005, art. 1, comma 174 e legge 23 dicembre 2009, n. 191, articolo 2, comma 86). Questo significa, per esempio, che in Lombardia, per un reddito inferiore ai 15 mila euro, l’addizionale Irpef è dell’1,23%, mentre in Calabria sale all’1,73%. In pratica, chi vive in Regioni con una sanità in difficoltà si trova a pagare di più in tasse locali, pur avendo accesso a servizi sanitari meno efficienti, con minori prestazioni disponibili e standard assistenziali inferiori. Un paradosso che accentua ulteriormente le disuguaglianze territoriali e sociali (Lazio, Calabria, Campania e Molise; Puglia; in Sicilia la maggiorazione viene azzerata dal 2019; mentre in Abruzzo proprio per coprire la voragine dei conti della sanità è scattato un nuovo aumento il 4 aprile 2025.

Commissari e società di consulenza
Negli anni il Lazio, l’Abruzzo, la Campania, la Calabria e il Molise sono state anche commissariate. Calabria e Molise lo sono tuttora. E per tutte queste Regioni, a cui va ad aggiungersi anche la Sicilia, sono entrate in campo persino le società di consulenza. Alla fine hanno almeno sistemato i conti?

I conti
Dal 2007 al 2022 la situazione finanziaria delle Regioni in Piano di rientro è migliorata. Nel 2007 il disavanzo complessivo superava i 4 miliardi di euro; nel 2022 la perdita si è ridotta a 452,9 milioni, da cui però sono esclusi i conti della Calabria che risulta avere in cassa 140,4 milioni perché ha ricevuto dei fondi dallo Stato per attuare il Piano di rientro, ma non è stata in grado di utilizzarli. Il controsenso? Sempre in Calabria, l’Azienda ospedaliero-universitaria Renato Dulbecco di Catanzaro paga i fornitori con un ritardo di 336 giorni (II trimestre 2024). In Molise, la Gestione sanitaria aziendale (GSA), che gestisce i servizi sanitari regionali, paga i fornitori con un ritardo di 439 giorni (I trimestre 2024). Questi ritardi non sono solo un indicatore di inefficienza, ma anche una voce di costo. Superati i 60 giorni, scattano gli interessi di mora: al tasso di riferimento stabilito dalla Banca Centrale Europea si sommano 8 punti percentuali (Legge n. 231/2002). Per esempio, se il tasso Bce è al 2%, gli interessi moratori ammontano al 10% annuo.

La speranza di vita
Dopo quasi vent’anni di Piani di rientro, la situazione dei servizi sanitari nelle Regioni interessate resta critica.
In tutte – ad eccezione del Lazio, dove però la sanità privata ha un peso determinante – la capacità di garantire ricoveri adeguati ai bisogni dei residenti continua ad essere insufficiente. L’indice di fuga, che misura la percentuale di residenti che vanno a curarsi fuori Regione è del 41,63% in Molise, del 24,78% in Calabria, del 21,6% in Abruzzo e del 15,27% in Puglia. I cittadini del Sud continuano quindi a spostarsi verso il Nord per ricevere cure, ma non sono gli unici a migrare: anche medici e infermieri se ne vanno. Dal 2019, nonostante la fine del blocco del turnover, i concorsi pubblici per nuove assunzioni spesso vanno deserti. La speranza di vita alla nascita, tra Nord e Sud, presenta una differenza che supera l’anno e mezzo.

Il lettore si chiederà: di chi è la responsabilità di un risultato che alla fine fa acqua da tutte le parti? Sta nella scelta della classe dirigente, ovvero in prima battuta da chi deve amministrare, poi da chi fa le regole per supplire a una cattiva gestione, infine da chi queste regole deve poi applicarle. Ricordiamo che il ministro della Salute è scelto dal Presidente del Consiglio; l’assessore alla Sanità regionale dal governatore; i direttori generali delle singole Asl dall’assessore. Tutte figure strategiche troppo spesso reclutate in base a criteri di fedeltà politica e non di competenza.

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A.N.D.E.
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