I modelli misti possono essere la chiave per competere meglio perché introducono meccanismi per spingere qualità delle cure e ricerca
Nelle ultime settimane la sanità italiana e, in particolare, l’equilibrio tra operatori pubblici e privati, sono tornati più volte al centro del dibattito pubblico. L’accesso universalistico alle cure, che contraddistingue l’Italia dal 1978, è per definizione un tema che riguarda tutti i cittadini e una risorsa strategica per il Paese.Come recentemente notato anche su queste pagine, oggi il nostro sistema sanitario nazionale affronta innegabili criticità legate a tempi di attesa e vincoli di bilancio che caratterizzano tutta la Penisola. Oltre alle cause già individuate, giocano fattori strutturali come gli alti costi delle cure più innovative e la demografia del nostro Paese, con un’età media sempre più elevata (il 70% degli interventi è legato a condizioni di cronicità).
Dobbiamo ricordare che queste sfide vanno affrontate in un contesto internazionale fortemente competitivo per il settore della Salute. I dati dell’Industrial R&D investment scoreboard della Commissione Europea indicano che, entro il 2028 nei Paesi dell’Unione saranno investiti in ricerca oltre 2.000 miliardi di euro. Oltre l’80% di queste risorse sarà rivolto alle reti di ricerca, con un ruolo fondamentale di imprese e centri di eccellenza (pubblici e privati). Una parte consistente degli investimenti è destinata sia alla ricerca di base sia alla ricerca clinica, che è fondamentale per portare nuove cure e mantenere alti gli standard di cura. L’Europa e l’Italia in particolare, hanno un vantaggio per la qualità dei dati sanitari di cui dispongono, la cui valorizzazione richiede però grandi reti di centri e popolazione ampie. In questo contesto i modelli di sanità misti pubblico-privati, per quanto non esenti da problemi analoghi al pubblico, possono essere la chiave per competere meglio perché presentano il vantaggio di introdurre meccanismi di «competizione virtuosa» che migliorano la qualità delle cure e spingono la ricerca.
Il caso della Lombardia è esemplare: con il 40% dell’attività di ricoveri (che sale al 67% per i cittadini non lombardi) e per l’80% erogata in convenzione, il comparto privato costituisce una costola fondamentale del Sistema Sanitario ed è da tempo motore di innovazione e ricerca. Non è un caso se, tra gli ospedali privati lombardi, vi siano alcune delle strutture più conosciute e stimate a livello internazionale, anche nel campo della ricerca scientifica. Dei 53 IRCCS (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) riconosciuti a livello nazionale, il 40% è infatti concentrato in Lombardia: cinque pubblici, istituiti in Fondazioni, e 14 privati. Si tratta di centri che, grazie alla collaborazione con università e imprese, contribuiscono a innovare la filiera e a garantire un’ampia concentrazione di studi scientifici, clinici e brevetti. È anche per questo ecosistema innovativo, dove il 40% delle più grandi imprese del territorio è dotata di un hub di ricerca, che si è scelto di avere qui il primo centro nazionale per la ricerca targata Life Sciences come lo «Human Technopole».
L’invito alla trasparenza e a un’armonizzazione nazionale degli indicatori circolato recentemente su queste pagine è quindi guardato con favore dagli operatori della sanità privata perché visto come un incentivo alla già menzionata «competizione virtuosa» volta a migliorare ancora le cure e a spingere la ricerca nell’interesse dei pazienti.