22 Novembre 2024

Fonte: La Stampa

di Francesco Semprini

Niente intesa per il cessate il fuoco. Il generale irritato dal ruolo della Turchia e dal riconoscimento del Parlamento di Tripoli

«Così come è l’accordo non lo firmiamo». Khalifa Haftar riparte da Mosca a tarda notte a bordo del suo Falcon 900 lasciando aperta la questione del cessate il fuoco in Libia a cui aveva aderito ieri pomeriggio il Governo di accordo nazionale in base all’intesa patrocinata da Turchia e Russia. Il Generale aveva preso tempo sino a stamane per valutare e meglio comprendere le condizioni, poi il silenzio e la partenza improvvisa. L’adesione di principio giunta nel fine settimana dalle forze di Tripoli e dall’autoproclamato Esercito nazionale libico di Bengasi aveva spianato la strada verso la capitale russa dove erano giunti ieri il capo del Consiglio presidenziale del Gna, Fayez al Sarraj, il generale Haftar, il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, e il presidente dell’Alto consiglio di Stato con sede nella capitale, Khaled al Mishri, espressione queste ultime degli organi legislativi della dicotomia politica e territoriale libica. Il documento è passato all’esame delle parti: Sarraj e Al Mishri hanno firmato l’accordo, Haftar e Saleh no. Il generale «giudica positivamente la bozza di accordo ma vuole più tempo per esaminarla, sino a domani mattina» (stamane), aveva spiegato il ministro degli Esteri Serghei Lavrov.

Lo strappo
Attorno la mezzanotte italiana è poi giunta la decisione di non aderire. «Non ci sarà alcuna firma sull’accordo di Mosca per diversi motivi, il più importante dei quali è l’intenzione della Turchia di sfruttarlo imponendosi attraverso esso come attore di riferimento in Libia per legittimare i due memorandum d’intesa firmati con il Presidente del Gna. Al contempo non è accettabile il riconoscimento implicito del parlamento parallelo di Tripoli (Consiglio di Stato) come nuovo organo in conflitto con il parlamento legittimo di Tobruk, oltre alla frammentazione delle forze armate», recita una nota confidenziale fatta circolare da funzionari vicini al generale. Da Bengasi tuttavia avvertono che la vicenda non è chiusa e nella giornata di oggi potrebbero giungere sviluppi al riguardo. Il diniego del generale – avvertono fonti del Palazzo di Vetro – è frutto anche dalla pressione degli Emirati che più di altri hanno investito sulla campagna militare di Bengasi per assicurarsi una «silver share» anche sulle attività economiche ed energetiche della Tripolitania.

Le 7 condizioni
Alle parti è stato sottoposto un accordo in sette punti. Ovvero osservare incondizionatamente il cessate il fuoco; normalizzare la vita a Tripoli e nelle altre città libiche e procedere a una de-escalation militare; assicurare l’accesso e la distribuzione di aiuti umanitari; formare una commissione militare 5+5 come previsto dal piano d’azione della missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil); designare rappresentanti che partecipino al dialogo economico, militare e politico promosso dall’inviato Onu Ghassan Salamé; formare gruppi di lavoro per individuare soluzioni politiche intra-libica; tenere il primo incontro dei gruppi entro gennaio 2020. Fonti vicine alla trattativa spiegano che, al di là dei sette punti «elevati», ci sono nodi da sciogliere sul terreno come la liquidazione dei mercenari, lo scioglimento delle milizie e il loro assorbimento in forze di sicurezza istituzionali e il ritiro di Haftar con la conseguente ridefinizione di territori e competenze.

Le imposizioni di Haftar
Ipotesi a cui l’armata della Cirenaica, in una nota, oppone un perentorio diniego affermando di voler mantenere le posizioni conquistate vicino a Tripoli: «Abbiamo intenzione di liberare tutta la Libia da milizie e gruppi terroristici. Non arretriamo di un passo». Posizione incompatibile con quella individuata dai due “broker” ovvero Turchia e Russia, e secondo cui ad Haftar e al suo esercito dovrebbero competere la sicurezza dei pozzi petroliferi, la cui competenza gestionale rimane però affidata all’autorità Noc allineata con Tripoli. E le attività di antiterrorismo, una delega che andrebbe incontro alle rivendicazioni dell’Egitto il quale vede nel generale Haftar il vero bastione contro il terrore sulla sponda sudorientale del Mediterraneo. Un quadro che di fatto ridimensionerebbe molto la figura del generale il quale non solo non incasserebbe incarichi politici ma neanche la titolarità dell’intero apparato militare libico. Evidentemente troppo poco per il generale che alza così la posta approfittando di «un cessate il fuoco che – sottolinea Salamé – è più fragile che mai», come dimostrano le violazioni avvenute nella notte alla periferia della tormentata capitale libica.

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