23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

economia

di Salvatore Bragantini

I bassi tassi favoriscono anche la Germania, il cui debito, in valore assoluto, non sfigura a confronto col nostro. L’inflazione poco sotto il 2% è nel mandato e aiuta a recuperare competitività.

Sale in Germania il volume delle critiche alla politica monetaria della Banca Centrale Europea; chissà che il bilaterale italo-tedesco di Torino non aiuti a superare le incomprensioni. Tutte le critiche son lecite, tranne quelle miranti a indebolire la Bce, condizionandone impropriamente le scelte. Tale è quella del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble; per lui è colpa delle Bce se il partito Alternative für Deutschlandha ottenuto buoni risultati nelle elezioni locali. Dove andrebbe a finire l’indipendenza della Bce dalla politica, che direbbe Schäuble se il suo omologo, Pier Carlo Padoan, esigesse una politica più lasca per levare munizioni elettorali al M5S? Ridesta antiche paure l’arrogante pretesa di una Bce lontana dalla politica altrui, ma attenta a quella tedesca: Quia sum leo.
Per i critici, con i tassi bassi — definiti «punitivi» — la Bce aggira il divieto di finanziamento monetario dei deficit; penalizza i risparmiatori tedeschi mentre aiuta i Paesi del Sud debitori; il credito alle imprese comunque scarseggia; non si ravviva l’economia anemica; anziché volere un’inflazione zero la vuole moderatamente positiva, e neanche ci riesce; sostenendo artificiosamente i corsi dei titoli aiuta i ricchi, etc.
Queste critiche sono (quasi) tutte sensate, ma (quasi) tutte ignorano, come fosse un dettaglio secondario, la domanda chiave: nello scenario dato, cos’altro potrebbe fare, in concreto, la Bce per adempiere al mandato di preservare la stabilità monetaria, definita da un tasso medio annuo d’inflazione nell’Eurozona «poco sotto il 2% nel medio termine»? Essa non può affrontare il problema vero, nel mondo ci son troppi risparmi, o troppo pochi investimenti attivabili; la domanda flebile blocca i secondi. La sproporzione fra risparmi e investimenti è la vera causa dei tassi bassi, che altrimenti tali non resterebbero a lungo. Tocca alla politica darsene carico, la Bce può solo cercar di «snidare» i capitali riluttanti e forzarli ad investire sperando di ottenere rendimenti reali.
Anche la politica delle banche centrali, si dice, «crea» risparmi; però le conseguenze dell’alternativa monetaria «tradizionale», imposta dal ministro Mellon al presidente Usa Hoover, le abbiamo viste nella crisi del ‘29, il «libro di testo» su cui han studiato i banchieri centrali, da Bernanke alla Yellen, a Fischer, a Draghi etc. La Bce potrebbe certo, con il Qe, comprare altri titoli, più atti di quelli pubblici a ravvivare velocemente l’economia; lo chiedono fra gli altri Vincenzo Visco e, sul Corriere Economia, Marcello Minenna. Chi però non indica alternative pratiche, che non siano la dissoluzione dell’euro, non sa quel che dice o è in malafede; magari punta ad una nuova Unione Monetaria fatta dalla Germania e dai suoi «nuovi satelliti». Non dovrebbe essere la linea della Cancelliera, neanche quella del suo ministro delle Finanze.
La Bce fa quel che deve, anche gli altri lo facciano; la sua politica monetarie, necessaria a preservare l’euro, non può raddrizzare un assetto istituzionale sghembo. Il debito pubblico alto non è stato causa (come vuole la narrazione corrente), ma conseguenza della crisi finanziaria (l’Italia è un’altra storia); se non si rianima la domanda, carente soprattutto per la caduta degli investimenti pubblici e privati, nessuna politica monetaria ci risolleverà. I tassi sono «punitivi» anche per i risparmiatori italiani, non solo per quelli tedeschi o finnici; anche alle nostre pensioni non giova questa politica monetaria (qui servirebbe una digressione, seguendo quanto scritto da Maurizio Ferrera sul Corriere l’8 aprile).
I bassi tassi favoriscono però anche la Bundesrepublik, il cui debito, in valore assoluto, non sfigura a confronto col nostro. L’inflazione poco sotto il 2% è nel mandato della Bce; aiuta a recuperare competitività. Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha detto che se l’inflazione è stata a lungo sotto l’obiettivo di medio temine, dovrà stare per un po’ al di sopra. Impeccabile; dati gli anni trascorsi ben sotto il 2% ciò implica per il futuro l’ardua meta di un periodo ben sopra il 2%. Un drappo rosso per molti a Berlino; la Bce, pur senza farsene condizionare, non può ignorarlo del tutto.
Il Quantitative Easing «aiuta» sì i ricchi sostenendo il valore dei titoli, ma anche chi non ne ha starebbe peggio se, senza Qe, il valore dell’euro schizzasse al cielo, come avverrebbe con una politica monetaria «tradizionale»; il fine del Qe non è svalutare l’euro, ma adempiere al mandato della Bce, fissato nelle regole che essa si dette sotto un «velo d’ignoranza» a fine anni ‘90. Non lo si può cambiare solo perché oggi in Germania è impopolare. Ciò detto, qualcuno ha presente dove sarebbe l’euro con una politica «tradizionale», e chi comprerebbe le merci tedesche, francesi o italiane, a quel cambio?
A pensar male si fa peccato, ma voler condizionare la Bce, con intimidazioni è solo dannoso; alzare il livello dello scontro non serve a nulla, se non a far capire che fra tre anni, scaduto il mandato di Mario Draghi, tutto cambierà. Scherzare col fuoco è pericoloso: la Bce è ormai la sola istituzione europea il cui vertice agisce non secondo logiche nazionali, ma nell’interesse di tutta l’eurozona. Non si sciupi un bene prezioso per l’Europa futura.

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