22 Novembre 2024

L’invasione russa dell’Ucraina, il conflitto a Gaza. C’è una malvagità e una spietatezza che ci impone di riflettere

Perché a nessuno dei tantissimi che esprimono il proprio raccapriccio per il «genocidio» al quale sarebbero sottoposti i palestinesi di Gaza ad opera di Israele, perché a nessuno dei tantissimi che questo raccapriccio esprimono ogni giorno sui giornali, in Tv, nelle piazze o nelle aule universitarie, viene mai in mente una circostanza ovvia? E cioè che nel momento stesso in cui per avventura Hamas s’impegnasse in cambio di una tregua a liberare gli oltre cento ostaggi catturati nel pogrom del 7 ottobre, in quel momento stesso il governo israeliano si troverebbe obbligato con ogni probabilità a mettere fine al suddetto «genocidio»? E perché nessuno dei tantissimi di cui sopra si lascia sfiorare dall’idea che se ciò non accade vuol dire che allora qualche responsabilità nella morte degli abitanti di Gaza forse ce l’hanno pure i terroristi di Hamas?
E perché, mi chiedo ancora, dei tantissimi che sono indignati del fatto che da due anni in Ucraina si continua a combattere e a morire e invocano a gran voce un «negoziato» lasciando intendere o dicendo apertamente che dei due contendenti dovrebbe essere Zelensky a chiedere di negoziare, perché mai a nessuno di costoro, mi chiedo, viene in mente che perché cessino i combattimenti basterebbe che Putin, riconosciuto universalmente come l’aggressore, iniziasse a ritirarsi dai territori che ha occupato con il suo esercito? Perché mai nessuno, neppure il Papa, chiede a Putin di farlo?
Qual è insomma, la ragione per cui dietro le così brucianti preoccupazioni umanitarie, dietro il così volenteroso impegno per la pace da cui è pervasa tanta parte dell’opinione pubblica italiana si cela in realtà qualcosa di ben diverso? Cioè l’evidentissimo stare a favore di una parte contro l’altra?
Non si tratta di una losca doppiezza. Sono convinto che anzi almeno in moltissimi casi — mi piacerebbe pensare che fosse ad esempio quello di Bergoglio – non si sia neppure consapevoli che il proprio stare dalla parte dell’umanità e della pace significhi in realtà stare da una parte contro l’altra. Che cosa è allora? È la paura. Una paura inconsapevole ma non perciò meno reale. Quella che sempre suscita in noi chi è insieme più forte e più cattivo, e che a questi due tratti ne aggiunge un altro: la spietatezza. Come spietati hanno appunto mostrato di essere tanto Hamas che Putin.
Certo, in guerra, dove si tratta di uccidere per non essere uccisi, tutti sono «cattivi». Ma la spietatezza è altra cosa. È la ferocia disumana, il sadismo, l’uccidere senza che ce ne sia alcun bisogno e nel modo più doloroso: come hanno ucciso gli uomini di Hamas nel pogrom del 7 ottobre, come hanno fatto i russi a Bucha. E se essere uccisi fa sempre paura, la spietatezza fa qualcosa di più: terrorizza, paralizza psicologicamente. Sicché se per resistere alla paura è necessario il coraggio, per resistere alla spietatezza il coraggio non basta. In aggiunta serve quella cosa che si chiama fede, la fiducia incrollabile nelle proprie ragioni e nei valori che esse rappresentano.
Serve insomma, proprio ciò che oggi a noi occidentali, a noi italiani, fa più difetto, di cui abbiamo perso quasi la nozione. Ritirati nei nostri comodi gusci di pace e di benessere non riusciamo neppure più a capacitarci che nel mondo esistano la forza e la malvagità, che esista la spietatezza. Che esista chi non si tira indietro se si tratta di uccidere a sangue freddo degli uomini legati e inermi, se si tratta di seviziare una donna infilandole un bastone nella vagina. E quando cose simili tuttavia accadono — come in Ucraina o in Israele — allora non desideriamo altro che esorcizzare quelle nefandezze, che allontanarle da noi. E per farlo arriviamo non solo a cancellarle dalla nostra coscienza — a negarle negando la nostra solidarietà alle vittime — ma ci mostriamo addirittura comprensivi nei confronti dei carnefici, solidali di fatto con le loro imprese. Perché quella testa dura di Zelensky continua a non voler trattare? Perché quei fanatici sionisti si ostinano a pensare che finché Hamas non restituisce gli ostaggi e combatte, non è possibile dargli tregua?
Questa durezza, questa decisone ferrea, ai nostri occhi di occidentali, di italiani — di cittadini di società prive di valori collettivi forti, immersi nel piacevole universo dell’individualismo e dei diritti, che da un secolo guerre e ferocia siamo abituati a vederli solo al cinema o in televisione — questa durezza e questa decisione, dicevo, non possono che apparire inconcepibili. Inconcepibili e fastidiosi: anche perché forse ci ricordano troppe cose del nostro passato.
Ma se le cose stanno così, allora, per favore, evitiamo di tirare in ballo i buoni sentimenti. Perché alla fine la vera ragione per cui ci affrettiamo a invocare ad ogni occasione la pace, il negoziato, la fine del «genocidio», la «Palestina libera dal fiume al mare» o qualunque altra cosa torni comoda allo spietato barbaro di turno, è una sola: perché abbiamo paura che la prossima volta egli magari bussi alla nostra porta.

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