Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Maggioranza e opposizione difendono posizioni fra loro antitetiche ma che hanno una caratteristica comune: sono entrambe insostenibili nel medio periodo
L’impressione di chi scrive è che, in materia di immigrazione, si sia aperta un’autostrada elettorale. Prima o poi qualcuno sarà tentato di percorrerla. Al momento l’opinione pubblica è polarizzata, sospinta verso posizioni estreme dal governo e dai suoi oppositori. Essi difendono politiche fra loro antitetiche ma che hanno una caratteristica comune: sono entrambe insostenibili nel medio periodo. La politica del governo può essere così riassunta: «Non passi lo straniero». In nome del «Prima gli italiani» e «Difendiamo la nostra cultura» (qualunque cosa tale parola – cultura – significhi). Dell’opposizione, oltre al Pd, fanno parte vari esponenti, laici e cattolici, della cosiddetta società civile. Alcuni sembrano anime belle: tanti buoni sentimenti, poco discernimento. La loro posizione può essere così sintetizzata: «Armiamoci e accogliete». In nome del Vangelo, dei diritti umani, nonché del rovescio – pardon, volevo dire del diritto – internazionale.
Finché gli unici piatti che gli elettori trovano nel menu sono questi due – ormai lo sappiamo – una netta maggioranza sceglie il piatto offerto dal governo. Quello cucinato dall’opposizione è ordinato da un numero assai inferiore di italiani. Si noti che all’opposizione importa solo fino a un certo punto di essere in minoranza. In regime di proporzionale il calcolo dell’uomo politico medio non riguarda le chance di vittoria elettorale della propria parte o degli avversari. Il calcolo è un altro: la mia politica serve oppure no a garantirmi il consenso di quei quattro gatti di elettori di cui ho bisogno per essere rieletto? Se serve la difenderò a tutti i costi. E pazienza se le mie scelte contribuiranno a fare vincere gli avversari.
«Non passi lo straniero» e «Armiamoci e accogliete» sono entrambe politiche suicide. Per quanto riguarda le scelte del governo, anche a prescindere dal fatto che viviamo ancora – grazie a Dio e in barba al signor Putin – in una società aperta, incastonata in una rete di interdipendenze internazionali e transnazionali, basta semplicemente ricordare che siamo un Paese in declino demografico per capire che chiudere il flusso migratorio non è possibile. Abbiamo bisogno, oggi e in futuro, di mano d’opera straniera, di forza lavoro giovane e fresca.
Anche la posizione opposta è irrealistica. Non si può mandare nei più remoti territori dell’Africa, come di fatto fa l’opposizione, il messaggio: venite pure, accoglieremo chiunque. Non è solo che chi sostiene questa posizione è un complice involontario dei trafficanti d’uomini. È soprattutto che il risultato è una profezia che si auto-adempie, si può generare una formidabile pressione migratoria, un flusso inarrestabile di barconi carichi di disperati in rotta verso l’Italia. Anche solo l’ipotesi che ciò possa avvenire suscita reazioni durissime da parte degli indigeni (gli italiani) per la percepita insostenibilità economica, sociale e politica di una simile eventualità.
I seri difetti della politica del governo (o della Lega) sono due. Il primo è che chi governa non ha ancora rimosso gli ostacoli che creano difficoltà all’immigrazione regolare e all’inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro: cose per noi economicamente e socialmente necessarie. Il secondo difetto è che, quali che siano i benefici elettorali immediati della politica dei porti chiusi, non c’è possibilità di proteggere, nel medio termine, le coste italiane, di ridurre la pressione della migrazione clandestina, se non si danno due condizioni: se non si ottiene, in primo luogo, la cooperazione dell’Unione europea nel controllo del Mediterraneo e se non si riattivano, in secondo luogo, quegli accordi stipulati dall’Italia ai tempi di Minniti e Gentiloni con governi, ma anche con gruppi tribali, che, controllando i vari territori (nel Vicino Oriente e nell’Africa subsahariana) possono bloccare le catene migratorie create e gestite dai trafficanti d’uomini. Ma la cooperazione dell’Europa, evidentemente, non può essere ottenuta da un governo antieuropeo. Inoltre, quella politica di accordi, oltre a richiedere expertise, una notevole capacità diplomatico-politica, per sua natura può produrre buoni risultati (nel contenere l’immigrazione clandestina) ma non è spettacolare quanto basta – a differenza della politica dei porti chiusi – per garantire benefici elettorali immediati a chi la pratica.
In una lettera alFoglio di alcuni giorni fa un politico fine e competente, Umberto Ranieri, criticava l’irrealismo e l’insostenibilità delle posizioni del suo partito, il Pd, in materia di immigrazione. Osservava Ranieri che per battere Salvini (la cui posizione, nel medio termine, si risolverà comunque in un fallimento dato che egli non è in grado di coinvolgere l’Europa), occorre una postura diversa da quella assunta recentemente dal Pd, si tratti dell’atteggiamento sulle Ong o della politica verso la Libia, le cui sorti sono intrecciate con la questione migratoria.
In questo momento è in discussione in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare sostenuta da Emma Bonino e dal suo gruppo, e sponsorizzata da molte associazioni, tesa a dare una nuova regolamentazione ai canali di promozione, e dell’inclusione lavorativa e sociale, degli immigrati regolari. Chi scrive non è un esperto della materia ma il provvedimento proposto gli sembra ben costruito e meditato (e comunque una buona base di discussione). Potrebbe rappresentare un tassello di una nuova politica dell’immigrazione («politica», in questo contesto, significa regolamentazione e controllo). Ma sarebbe solo un tassello, sia pure indispensabile. Il secondo tassello dovrebbe essere rappresentato da una seria proposta (che vada al di là della politica dei porti chiusi) di inflessibile contrasto all’immigrazione clandestina e ai connessi traffici. Tra i due poli del «Non passi lo straniero» e «Armiamoci e accogliete» c’è, in mezzo, una vasta prateria elettorale. Occorre qualcuno che abbia voglia di cavalcarci dentro.