19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimiano Bicchi

Come si esce dalla spirale? Invertire la tendenza non è facile. Forse è arrivato davvero il momento di ricostruire un nuovo rapporto tra scienza e politica, non solo sul piano tecnico ma anche e soprattutto su quello culturale


Negli ultimi tempi, soprattutto in relazione a temi come le vaccinazioni o il clima, si è parlato di crisi di fiducia nella scienza e addirittura di un sempre più diffuso «antiscientismo». Proviamo a fare un po’ di chiarezza. In realtà, dati nazionali e internazionali (Osservatorio Scienza Tecnologia e Società, Eurobarometro, Pew Center negli Stati Uniti) smentiscono questa impressione per quanto riguarda la società. Gli studi sugli orientamenti del pubblico ci dicono infatti che la fiducia verso la scienza e gli scienziati, anche in Italia, resta molto elevata, soprattutto fra i più giovani e istruiti, e nettamente superiore a quella di altre categorie professionali. L’alfabetismo scientifico nel nostro Paese è in linea con quello degli altri Paesi europei e, seppur permangano rilevanti lacune tra i meno scolarizzati, è significativamente cresciuto nell’ultimo decennio, anche per effetto della maggiore istruzione delle nuove generazioni. Il vero problema, e la vera crisi, riguarda invece il rapporto tra politica e scienza. Sempre più spesso i leader politici ritengono di poter mettere in discussione l’autorevolezza degli esperti scientifici, o addirittura di poter fare a meno della loro competenza.
Come si spiega questo fenomeno, e quali sono le possibili strade per affrontarlo? Il rapporto tra scienza e politica, così come lo conosciamo, prende forma sostanzialmente tra le due Guerre mondiali. Vari fattori, tra cui il contributo decisivo offerto da alcuni scienziati nei due conflitti, contribuiscono in quel periodo a rafforzare la convinzione che il potere politico dipenda in misura crescente dal contributo regolare di scienza e tecnologia e che le conseguenze economiche, sociali ed ecologiche delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche abbiano un’influenza determinante sui destini delle nazioni e del mondo. Alcuni commentatori definirono scherzosamente questa immagine della scienza, codificata in un celebre rapporto redatto nel 1945 dall’ingegnere Vannevar Bush per la Presidenza degli Stati Uniti, come «gallina dalle uova d’oro». Oltre settant’anni dopo, la ricerca scientifica continua a essere sostenuta da importanti investimenti pubblici. L’Unione Europea, ad esempio, si appresta a destinare alla ricerca scientifica circa cento miliardi di euro dal 2021 al 2027. Ma non c’è dubbio che la percezione del suo ruolo da parte della politica sia cambiata. Alcune ipotesi possono aiutare a comprenderne il perché.
Vi è, in primo luogo, l’ipotesi che gli elementi tecnico-scientificisiano stati incorporati in modo così sistematico nei processi decisionali da divenire, paradossalmente, poco visibili. La scienza sarebbe, in questo caso, «vittima del proprio successo»: dandola per scontata, la politica non è più in grado di capirne l’importanza. Questo effetto paradossale si riscontra anche in alcune ricerche sull’interesse dei giovani per la scienza. Questo è minore proprio laddove scienza e tecnologia sono più diffuse e attive (Scandinavia, Giappone); viceversa c’è più interesse ed entusiasmo nei Paesi in cui investimenti e istruzione scientifica si stanno ancora sviluppando.
Un’altra possibilità è che quello tra scienza e politica sia stato perlopiù un matrimonio di convenienza. Con rare eccezioni, le élite politiche non avrebbero mai davvero metabolizzato un senso profondo del ruolo culturale della scienza, limitandosi a riconoscere l’utilità di alcuni risultati.
Infine, su questo rapporto in crisi pesa anche la crescente sfiducia da parte della scienza nella politica. Come rivelano varie vicende (le marce degli scienziati, il movimento «314 Action» che recentemente ha portato negli Stati Uniti numerosi scienziati a candidarsi e alcuni a essere eletti al Congresso), il mondo della scienza si fida sempre meno della capacità della politica di compiere scelte informate.
Come si esce da questa spirale di sfiducia e incomprensione reciproca? Non è facile, naturalmente, invertire una tendenza così ampia, che non è nata (un altro luogo comune da sfatare) con l’era dei social ma che indubbiamente gli odierni mezzi di comunicazione rendono particolarmente visibile. Secondo lo studioso americano Robert Crease, intervenuto recentemente sul tema sulla rivista scientifica Nature, «denunciare o gridare: “la scienza funziona!” o sbattere sul tavolo grafici e tabelle» non basta di per sé a ristabilire l’autorevolezza della scienza rispetto alla politica. Forse è arrivato davvero il momento di ricostruire un nuovo rapporto tra scienza e politica, non solo sul piano tecnico ma anche e soprattutto su quello culturale, che vada al di là dell’utilità reciproca e dello scambio tra risorse e risultati pratici e tenga conto dei profondi cambiamenti intervenuti dal secondo dopoguerra a oggi. È inevitabilmente un obiettivo di lungo periodo. Ma se non cominciamo a lavorarci oggi, la crisi tra scienza e politica sarà destinata ad aggravarsi con gravi conseguenze per entrambe, oltre che per tutti noi.

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