21 Novembre 2024
RenziCalenda

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L’aggregazione politica che fa capo a Calenda e Renzi cerca spazio e punta a un sistema maggioritario a doppio turno

Un futuro luminoso o un futuro di stenti? L’aggregazione politica (Azione e Italia viva) che fa capo a Carlo Calenda e a Matteo Renzi è destinata a grandi imprese oppure dovrà accontentarsi di vivacchiare stretta nella tenaglia fra la destra e la sinistra? Terzo polo, al momento, è soltanto un nome di comodo che indica un posizionamento politico (né con gli uni né con gli altri). Può diventare in futuro — come è nella ambizione dei suoi leader — un perno fondamentale della politica italiana? Apparentemente Calenda e Renzi si trovano in una posizione difficile. Ambiscono a presentarsi agli elettori nella veste della «opposizione responsabile», l’opposizione che, nell’azione del governo, distingue il loglio dal grano, le cose da contrastare e quelle da condividere. Ciò serve a marcare la distanza, il fossato che divide, in termini di identità e di stile, il Terzo polo dal massimalismo dei 5 Stelle e, se il Pd seguirà le orme di quest’ultimo, dal resto dell’opposizione nel suo insieme. Però è una posizione difficile e rischiosa. Le altre opposizioni cercheranno (già cercano ora) di bollare il Terzo polo come stampella del governo.
Se ci riusciranno (magari sfruttando anche eventuali futuri errori di Calenda e Renzi) toglieranno loro la capacità di attrazione sulla parte di elettori del Pd che non apprezza il «campo largo» (ossia l’alleanza con i 5 Stelle). Fino a questo momento Calenda e Renzi si sono mossi con abilità. Sia appoggiando un buon candidato di centrosinistra per le regionali del Lazio, sia mettendo a nudo le debolezze del Pd in Lombardia. La scelta di quest’ultimo, il rifiuto di sostenere Letizia Moratti, potrebbe diventare un’opportunità per il Terzo polo.
Al netto di eventuali errori, il futuro della formazione che fa capo a Calenda e a Renzi non dipende da loro ma da ciò che accadrà sia nell’area del governo sia in quella dell’opposizione.
Per quanto riguarda il governo, tutto è legato a una scommessa: riuscirà la destra a consolidare il suo potere di governo oppure (è ciò su cui sembrano puntare Calenda e Renzi), nonostante l’indubbia abilità di Giorgia Meloni, la sua azione incontrerà tali e tante difficoltà da suscitare, fra non molto, forti delusioni nell’elettorato che ha dato alla destra la vittoria elettorale? Crisi economica, una macchina amministrativa piena di buchi — certamente inadeguata a gestire al meglio l’impiego dei fondi Pnrr — , perduranti difficoltà nel rapporto con l’Europa, conflittualità permanente all’interno della coalizione di maggioranza, possono rapidamente usurare, una volta finita la luna di miele, il capitale di fiducia del governo. Se ciò avvenisse, il Terzo polo sarebbe nella posizione migliore per intercettare una parte almeno dei delusi della destra.
Ma, indubbiamente, è ciò che accadrà alla sua sinistra, in casa Pd, ciò che maggiormente condizionerà il futuro del Terzo polo. Al momento il Pd sembra fare ogni sforzo per eludere la regola generale: quella secondo cui se una qualunque organizzazione politica si trova a rischio di sopravvivenza reagisce alla sfida nominando un «dittatore» (nel senso antico-romano del termine), il quale mette fuori gioco le piccole oligarchie che la dominavano e l’hanno portata alla disfatta, la ristruttura profondamente e la mette in condizione di tornare ad essere attraente e competitiva. Il Pd, come indicano i sondaggi, rischia di essere surclassato e, in prospettiva, assorbito dai 5 Stelle. Questa possibilità è apparsa evidente a tutti una volta conosciuti i risultati delle elezioni. Ma anziché reagire immediatamente nel senso detto, la dirigenza Pd ha scelto di «allungare il brodo», di rinviare di mesi e mesi le decisioni sul proprio assetto futuro: le correnti interne, ossia le oligarchie di cui sopra, hanno prevalso, si sono mosse, e si stanno muovendo, come è inevitabile, allo scopo di tutelare se stesse, chiunque diventi alla fine il segretario. Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, è forse il leader potenziale più abile di cui il Pd possa disporre al momento. Ma una cosa sarebbe stato un Bonaccini fatto segretario subito dopo le elezioni, con un mandato in bianco per fronteggiare l’emergenza e il compito di rilanciare il partito, una cosa diversa un Bonaccini (ammesso che sia lui alla fine il prescelto), eletto al termine di un lungo iter durante il quale sarebbe costretto a patteggiare con le suddette oligarchie.
Dal punto di vista di Calenda e Renzi l’esito migliore sarebbe quello di un Pd disposto a seguire le indicazioni di D’Alema, Bettini, Orlando, ossia pronto ad allearsi con i 5 Stelle. La storia passata, l’antica esigenza (che risale al Pci) di non avere nemici a sinistra, lo spinge in quella direzione. Si noti che in tal caso il Pd non potrebbe più nemmeno garantire la collocazione internazionale che prima delle elezioni aveva assicurato Enrico Letta. Il voto contro la risoluzione del Parlamento europeo che qualifica la Russia come stato terrorista da parte di tre eurodeputati del Pd, è il primo segnale di un possibile smottamento. Il rischio è che fra non molto tempo una parte del Pd ricominci a suonare un vecchio spartito: «La guerra in Ucraina? Tutta colpa degli americani». Un suo eventuale abbraccio con i 5 Stelle sarebbe per il Terzo polo una benedizione. Gli si spalancherebbero davanti vaste praterie elettorali. Da percorrere in carrozza.
Ma nemmeno un Pd semi-paralizzato dai veti incrociati fra le correnti potrebbe dispiacere a Calenda e a Renzi. Continuerebbe ad essere un facile bersaglio sia per il Terzo polo sia per Conte.
Magari non andrà così. Magari il Pd riuscirà a risollevarsi. Ma potrà farlo, giunti a questo punto, solo se riuscirà a darsi quella chiara e netta identità politica che non ha mai avuto. In tal caso, il Terzo polo sarà costretto ad abbandonare i sogni di gloria.
Per ora, comunque, esso può contare su una rendita di posizione. Se sarà ancora in forma al momento buono, quando, superato il giro di boa della metà legislatura, si ricomincerà a parlare di riforma della legge elettorale, al Terzo polo converrebbe tentare un accordo con la destra per introdurre un maggioritario a doppio turno. È un sistema che spesso (anche se, ovviamente, non sempre, non in tutte le elezioni) offre buone opportunità alle forze centriste.

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