Fonte: La Stampa
«L’euro è irrevocabile» e nessuno – nemmeno Washington – può accusare la Bce di manipolare il cambio o la Germania di fare svalutazioni competitive: mentre le pressioni dei mercati si intensificano, con lo spread italiano oltre i 200, il presidente della Bce Mario Draghi alza una barriera a difesa del progetto europeo, attaccato dai movimenti antieuropeisti e ora anche dall’amministrazione Trump.
Sui mercati c’è chi teme una tempesta perfetta nei prossimi mesi sulla moneta unica, con elezioni ad alto rischio alle porte dalla Francia all’Olanda a, potenzialmente, l’Italia. E così Piazza Affari segna un altro scivolone, -2,2%, con le banche che tornano sotto forte pressione. Il differenziale di rendimento Italia-Germania vola ai massimi dal febbraio 2014, toccando una soglia d’allarme.
È sotto questo cielo carico di nubi che Draghi si rivolge al Parlamento europeo nell’occasione solenne offerta dalla vigilia del 25esimo compleanno del Trattato di Maastricht. Un trattato – replica all’Eurodeputato del Movimento 5 Stelle Marco Zanni che lo incalza – che ha fatto la moneta unica «irreversibile» al punto che tornare a un sistema come il `serpente monetario´ degli anni settanta spinge il presidente della Bce a rubare una battuta a Ronald Reagan: «ancora? ma per favore».
Ma è sul fronte dei rapporti con Washington che il presidente della Bce affronta un altro tema incandescente, dopo che Peter Navarro, superconsigliere di Trump per il commercio estero, ha definito l’euro «enormemente sottovalutato» e una sorta di «marco tedesco camuffato» che ha fatto volare l’export tedesco. Il surplus tedesco record, bestia nera di Trump (e anche di diversi partner europei della `sponda mediterranea, Italia inclusa) riflette «la forza dell’economia tedesca e la sua competitività» ed era già al 6% del Pil quando l’euro era a 1,4, ben più forte di oggi, spiega Draghi. Alla Bce «non siamo manipolatori del cambio», e del resto è stato lo stesso Congresso Usa, appena lo scorso ottobre, a certificarlo e a certificare che Berlino «non manipola il cambio».
È una questione tecnica ma che va al cuore dei rapporti tesi con Trump, che ha fatto dell’America First´ sul fronte commerciale il suo cavallo di battaglia: e Draghi va anche oltre, dice che la Bce guarda «con preoccupazione» gli annunci di misure protezionistiche e che l’idea di tornare alla deregulation finanziaria che fece esplodere la crisi di dieci anni fa «è qualcosa di molto preoccupante» e «l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno».
Se un banchiere centrale, peraltro molto accorto come Draghi, si spinge così vicino alla soglia invalicabile della politica è perché la preoccupazione è alta, con Trump che medita di inviare a Bruxelles un ambasciatore che ha paragonato l’Ue all’Unione sovietica. E Draghi sente il bisogno di fare fronte comune con Angela Merkel, leader del Paese che è il vero obiettivo degli attacchi americani e che che fronteggia le elezioni a settembre. La cancelliera ha appena rievocato l’ipotesi di un’Europa che proceda a due velocità, idea che Draghi definisce ancora troppo vaga per entrare nel dettaglio ma che pone la minaccia di lasciare indietro chi non è al passo con le riforme.
Il presidente della Bce rivendica così la «ripresa solida» dell’Eurozona (1,7% nel 2016, più degli Usa) «diversamente da una percezione diffusa» (e piuttosto accreditata fra i governi della sponda mediterranea). Governi che ricevono anche una bacchettata sul fronte dei conti pubblici, anche questa sintomo della volontà di Draghi di essere compatto con la cancelliera: con gli spread che tornano a salire, dall’Italia al Portogallo alla Francia, «raccomanderei – dice l’italiano – che le politiche di bilancio in tutti i Paesi siano volte a sostenere la ripresa, ma allo stesso tempo in maniera sostenibile. I paesi che non hanno spazio di manovra sul bilancio non dovrebbero cercarlo un modo per trovarlo anche se non c’è». Una frase che certo non sembra un buon viatico per l’Italia, soprattutto visto che a Bruxelles non tutti danno per scontato il via libera della Commissione.
Grande cautela sull’asse Francoforte-Berlino, dunque, e il rilancio del progetto europeo in termini che non vadano di traverso ai tedeschi: «se avremo una convergenza e un rispetto delle regole, creeremo le basi per una situazione di fiducia che ci permetterà di fare passi avanti nell’integrazione europea». Il punto d’arrivo è lo stesso, ma quello di partenza è opposto a quello gradito all’Italia, che assieme ad altri preferirebbe si partisse dalla solidarietà (magari dagli eurobond) prima che dalle regole.