I ministri che vengono dalla politica (e intendono restarci, cioè quasi tutti) non amano mostrare le condizioni effettive in cui versa la propria amministrazione: le sue incapacità, i suoi difetti, i limiti della sua azione e del suo personale
Di tutto il settore pubblico italiano e di tutta la nostra organizzazione sociale Istruzione e Giustizia sono per ammissione unanime i due ambiti che versano in una situazione più critica. Quelli i cui risultati in termini di efficienza, di qualità delle prestazioni e di apprezzamento da parte dei cittadini fanno segnare da anni gli indici più bassi, costituendo una pesante ipoteca sull’avvenire dell’ intero Paese. Ma se sulle gravissime carenze in questi due settori esiste nell’opinione pubblica un accordo sostanzialmente unanime, se ormai anche esponenti di opposti schieramenti politici sono più o meno unanimi nel medesimo giudizio (perlomeno quando si esprimono in privato), perché allora le cose non cambiano? Perché nessuno dei vari governi succedutisi negli anni ha fatto qualcosa di significativo per migliorarle?
La risposta sta in due fatti arcinoti: da un lato nell’opposizione sindacalizzata di coloro che lavorano in questo caso nella scuola e nell’amministrazione della giustizia (così come in ogni altro comparto della pubblica amministrazione), dall’altro nell’esistenza di una formidabile blindatura ideologica costruita tanto nella scuola che nella giustizia a difesa dello status quo. Ma c’è un terzo elemento decisivo: la pavidità della politica incapace di fare il proprio mestiere, cioè di far valere l’interesse generale.
Per tutelare davvero un tale interesse i ministri, innanzitutto, dovrebbero avere il coraggio di denunciare ciò che non funziona nel settore che è loro affidato e nell’amministrazione di loro competenza sforzandosi d’indicare per entrambi i possibili rimedi. È proprio questo però che nel nostro Paese è rarissimo che accada. Da noi infatti, in tali circostanze vige perlopiù la regola di un pietoso, omissivo silenzio.
Il caso dell’istruzione è esemplare. In Italia — bisogna dirlo alto e forte — l’istruzione in generale fa acqua da tutte le parti. Non è questione, naturalmente, dell’impegno di chi ci lavora, a cominciare dagli insegnanti. È questione di almeno due o tre decenni di pregiudizi politico-pedagogici rivelatisi rovinosi, di leggi sbagliate, di assegnazione di compiti che alla scuola non competono, di un reclutamento fatto perlopiù con l’unico criterio di sistemare i precari, di programmi mal concepiti; a ciò si sono aggiunte infine le direttive europee, sempre ispirate a un nuovismo pretenzioso quanto culturalmente devastante. Il risultato è quello che l’esperienza comune e le valutazioni internazionali testimoniano. In media i giovani italiani mostrano carenze nell’apprendimento tra le più gravi. Nel Mezzogiorno, cioè in un terzo del Paese, l’abbandono, l’impreparazione e insieme le promozioni immeritate sono un fenomeno generale. Ma anche nel resto della Penisola, tranne poche isole felici, si registra una situazione allarmante. Cancellata dai programmi la geografia, quasi nessuno sa più indicare, ad esempio, i confini delle regioni italiane e non parliamo di quelli dei Paesi europei; d’altro canto le date fondamentali della nostra storia e di quella mondiale sono diventate un optional amatoriale; sempre più rara è anche la capacità di capire un testo e di riassumerlo, di concettualizzare verbalmente con un minimo di adeguatezza; infine va perdendosi del tutto pure la capacità di scrivere in corsivo — la scrittura dell’intimità, dell’io che pensa e narra di se stesso — a pro di una sorta di un maiuscoletto cuneiforme d’ispirazione digitale. Ma si è mai sentito un ministro dell’istruzione parlare di qualcuna di queste cose in maniera approfondita, spiegandone le ragioni, andando alla radice dei problemi e proponendo rimedi adeguati alla loro gravità? Non mi pare proprio.
Lo stesso vale per la Giustizia, dalle cui aule ogni italiano con la testa sulle spalle cerca di tenersi lontano come dalla peste non nutrendo in essa la minima fiducia. Ebbene, non ricordo neppure uno dei tanti ministri della Giustizia che, pur se magari convintissimo dell’esclusivo interesse della magistratura alla difesa dei propri interessi corporativi, pur se magari convintissimo, ad esempio, del carattere irreale e mistificatorio dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero, pur se magari convintissimo del carattere abusivo della pretesa del Csm d’interloquire alla pari con governo e Parlamento in tema di legiferazione penale, non ricordo neppure uno di questi ministri, dicevo, che sia mai intervenuto per denunciare apertamente lo stato delle cose esistente e cercare di rimetterle a posto. Timidamente, molto timidamente, lo hanno fatto di recente in modi diversi solo Marta Cartabia e Carlo Nordio, non a caso però due ministri non politici.
I ministri che invece vengono dalla politica (e intendono restarci, cioè quasi tutti) non amano mostrare le condizioni effettive in cui versa la propria amministrazione: le sue incapacità, i suoi difetti, i limiti della sua azione e del suo personale. Cioè non amano mostrare la realtà vera con la quale ogni giorno hanno a che fare i cittadini. In specie se da decenni l’Italia ufficiale si è abituata a mistificare quella realtà con una costruzione ideologica che la dipinge come il non plus ultra dell’inclusività democratica (vedi la scuola), ovvero come una conquista preziosa della Costituzione «più bella del mondo» (vedi la giustizia). Di fronte alla menzogna del discorso pubblico accreditato sia la sinistra per losca convenienza, sia la destra per insipiente pavidità, si guardano bene dal dire la verità.
Se la dicessero quei ministri ne temono le conseguenze. Generalmente poco sicuri di sé per mancanza di una vera forza politica personale (perlopiù sono stati messi lì per graziosa decisione di un capopartito), hanno paura che la verità non solo probabilmente li renderebbe impopolari presso i propri dipendenti ma soprattutto che li obbligherebbe a mettere davvero le mani nell’amministrazione loro affidata e nei suoi fini istituzionali, nella sua effettiva realtà : cioè a fare qualcosa per cui non hanno quasi mai né la competenza né l’autorevolezza necessarie.
Accade così che in generale per i ministri italiani governare non sia sinonimo di un agire concreto e in profondità, dell’introduzione di novità incisive, ma voglia dire un’altra cosa: essenzialmente spendere dei soldi e fare delle nomine. Cioè le due sole cose che ai loro occhi portano voti e quindi una maggiore probabilità di essere rieletti e restare in carriera. Per il resto ci si limita a «mettere delle pezze», come si dice: a prendere provvedimenti di facciata, a immaginare ritocchi destinati di solito all’insignificanza, a ordinare ispezioni, a fare annunci e a dare interviste. Si direbbe il destino della Seconda repubblica: la via italiana all’immobilismo.