Fonte: Corriere della Sera
di Marco Imarisio
Bisogna fare i conti con la cultura che si intravede dietro certe dichiarazioni quasi compiaciute. Con una sottostima ormai consueta della funzione svolta dalla scuola
La scuola è il primo luogo dove si impara l’importanza delle parole. Che possono essere pietre, ma sono sempre e comunque indicatrici di una visione del mondo. Non è neppure questione di chiudere o non chiudere, per quello ormai ci sono parametri rigidi come il nuovo inverno pandemico che stiamo vivendo. Quando Vincenzo De Luca definisce «Ogm» e «cresciuta con latte al plutonio» una bambina evidentemente considerata strana perché ha voglia di stare in classe, quando Giovanni Toti sostiene che battersi per la presenza in aula significa «tenere fede a una idea elitaria della cultura», riducendo così un tema universale a una scelta di campo, destra o sinistra, pesto o ragù, diventa chiaro che il problema non è solo tenere a casa un altro mese gli alunni.
Magari fosse così. Invece bisogna fare i conti con la cultura che si intravede dietro certe dichiarazioni quasi compiaciute per quella che è una sconfitta dell’intera società. Con una sottostima ormai consueta della funzione svolta dalla scuola. Con la tendenza a considerare l’istruzione un valore aleatorio e fungibile, ordinaria merce di scambio al mercato della politica. E non una linea del Piave da difendere a ogni costo, come invece avviene in altri Paesi a noi vicini, dove il mantenimento della didattica in presenza è considerato una questione di principio. Al punto che quando si è obbligati a rinunciarvi, lo si fa con sincera preoccupazione. Senza prendere sottogamba una scelta destinata ad avere comunque pesanti conseguenze.
La scuola continua a essere un retropensiero, per i nostri presidenti di Regione, che ormai da un anno si spendono con generosità per la causa di ogni categoria purché in possesso di certificato elettorale. E nelle loro richieste hanno sempre tenuto sullo stesso piano la necessità di chiudere le aule e quella di riaprire le attività commerciali. Contribuendo così a far percepire l’istituzione più importante per il nostro futuro come una sorta di nemico del fatturato.
Nelle sue dirette su Instagram, Matteo Salvini attaccava spesso l’ex ministra Lucia Azzolina dicendo che certo, la scuola è una bella cosa «ma prima viene la produttività». Non esprimeva solo una opinione personale, ma dava voce a una corrente ben presente nella nostra società, per quanto carsica. Altrimenti non si spiegherebbe il nostro ultimo posto nella spesa pubblica destinata all’istruzione tra i 37 Paesi dell’Ocse e l’esaltazione spesso strumentale della didattica a distanza, quando appare evidente che quella in presenza è molto più efficace.
Chi ha responsabilità istituzionali dovrebbe avere un orizzonte più vasto. I danni e le disuguaglianze prodotte da questa situazione sui nostri ragazzi sono sotto gli occhi di tutti. Se le parole hanno davvero un peso, quelle sulla scuola di gran parte della nostra classe dirigente rivelano una leggerezza imperdonabile.