Il signor Rossi riceve un’educazione di 10 anni, di qualità e quantità inferiore rispetto ai signori Smith, Muller e Martin, i suoi omologhi inglesi, tedeschi e francesi. Poi, se trova un lavoro, nel Paese dove la mobilità sociale è la peggiore delle trenta economie avanzate del mondo, non sarà pagato in base alla sua produttività e rischierà di perdere il posto. Se invece apre un’impresa sarà in uno dei Paesi peggiori per la disponibilità e convenienza dei servizi finanziari e nel peggiore per la presenza (assenza?) delle infrastrutture basilari e digitali.
L’anagrafica dell’italiano medio che emerge dal primo studio sull’inclusione sociale pubblicato oggi dal World Economic Forum (Wef) è sconfortante. Nel confronto con le trenta economie più avanzate del mondo, l’Italia riesce a piazzarsi nelle prime dieci posizioni solo per due parametri su ventidue. Ma, per una volta, l’eterno confronto con l’altro non è il cuore della questione: lo studio del Wef ragiona sulla crescente ineguaglianza, e boccia le classi dirigenti dei trenta Paesi più avanzati. Ognuno sembra impegnato a far del suo meglio per non affrontare il problema dei problemi.
L’analisi prende in considerazione sette aree cruciali, dall’educazione al lavoro, dall’imprenditoria alle infrastrutture. Sono le aree in cui bisogna lavorare duro per migliorare la situazione ormai disegnata da decenni di studi sull’impoverimento della classe media. L’ineguaglianza è un nodo complesso – e non è un nodo solo italiano. Secondo il Wef «tutti i Paesi stanno fallendo l’occasione di ridurre l’ineguaglianza nei redditi, senza peraltro toccare la crescita economica». L’organizzazione del forum di Davos che riunisce i grandi nomi dell’economia e della finanza ammette perfino che una crescita della tassazione sui redditi più alti – invocata per esempio dal Capitale di Thomas Piketty – potrebbe aiutare. Ma, sembra aggiungere il report, ci sono tante altre decisioni da prendere prima.
Lo studio fornisce una sorta di cartella clinica del Paese, da cui emerge la posizione nel club delle trenta economie avanzate, dal Regno Unito alla Germania, dall’Australia agli Stati Uniti. L’Italia è ultima o penultima per produttività dei dipendenti, iniziativa imprenditoriale, inclusione nel sistema finanziario, etica della classe politica ed economica, e infrastrutture di base e reti digitali.
Il report del Wef si apre anche con un obiettivo ambizioso: convincere la comunità economica che «è possibile essere a favore dell’inclusione sociale e garantire al tempo stesso l’attenzione alla crescita economica». La conclusione sembra quasi una risposta a un discusso editoriale del Financial Times dello scorso mese che affermava, secco: «L’ineguaglianza è ingiusta, ma non è cattiva per la crescita». Secondo l’editoriale, la «certezza retorica» sposata anche da Fondo Monetario Internazionale e Ocse sugli effetti positivi di una redistribuzione si basa su risultati di ricerca economica piuttosto «banali».
Nel dibattito ci sono le prime mosse delle grandi aziende americane sul salario minimo, c’è quel 28% di famiglie Rossi – le famiglie italiane – che sono a rischio povertà secondo l’Istat, con meno di duemila euro netti al mese. C’è l’1% (o 0,1%) dei ricchi del mondo, bersaglio delle proteste che furono di Occupy Wall Street. È un dibattito infinito: può continuare alle prossime dieci edizioni di Davos.