Fonte: Corriere della Sera
di Giuseppe de Rita
Nella società sembra cominciare a serpeggiare un bisogno di futuro: può nascere la speranza che esso ci riservi qualcosa di meglio di quello che sperimentiamo nel quotidiano
Il commino della legge di Bilancio è ormai abbastanza avanti per coglierne una duplice caratteristica, destinata verosimilmente ad essere ribadita negli anni a venire. Anzitutto è da notare che da essa restano fuori possibili impegni volti ad affrontare i nostri più urgenti problemi sistemici: dalle tante crisi aziendali alle carenze delle nostre infrastrutture materiali ed immateriali, alla nostra presenza nel tormentato mercato internazionale, all’ambiguo rapporto fra pubblico e privato e nella dinamica del sistema di imprese. E non c’è bisogno di altri esempi per confermare la quasi inesistenza nel citato documento di una adeguata attenzione al delicatissimo momento del nostro sistema.
In compenso il documento è pieno di interventi molto minuti e molto domestici, denominati spesso con il mitico termine di bonus: per i bebè, per le mamme, per i giardini intorno casa, per le facciate degli edifici, per i rubinetti di cucina e del bagno, addirittura per gli assorbenti femminili, con finale lotteria nazionale sugli scontrini delle spese; e tanto altro ancora (qualche minuzia mi sarà sfuggita). Sembra quasi che la politica abbia deciso di dare priorità ad interventi volti a garantire una certa signorilità della vita quotidiana, con una strategia di stampo paesano o condominiale. Forse, o quasi certamente, questo appiattimento all’ordinarietà è una conseguenza fatale di una tendenza a che le decisioni di sistema slittino in alto: nelle strutture internazionali e comunitarie; sulle centrali della finanza internazionale; o addirittura nella dinamica spontanea dei vari processi di globalizzazione.
Se la legge di Bilancio slitta in basso, si potrebbe dire che si tratta della vittoria della ordinaria vita quotidiana e dell’impegno politico a renderla la più agevole possibile; con la conseguenza naturale di mettere da parte ogni ambizione di programmare, o almeno progettare, un futuro di sistema. E chi in questi anni, me compreso, ha coltivato il primato della «continuità e della potenza dell’ordinario» dovrebbe sentirsi soddisfatto. Ma, forse per istintiva nostalgia per l’antica esperienza nella programmazione degli anni Cinquanta e Sessanta, mi ritrovo inaspettatamente a non sopportare che la volontà politica e l’attività legislativa si applichino con fervore a problemi di «troppa» ordinaria vita quotidiana. Il «monaco delle cose» che ho sempre cercato di essere si ritrae se cresce una politica delle cose improvvisata sui rubinetti di casa.
Inizio anzi a sospettare che nella società cominci a serpeggiare un bisogno di futuro; di speranza che esso ci riservi qualcosa di meglio di quel che viviamo nel quotidiano; di bisogno di disegnare la struttura della vita collettiva, nella composizione sociale come nelle dinamiche del territorio; di voglia di perseguire ancora sviluppo economico e civile. Certo seguendo una tale intuizione posso rischiare di cadere in un ragionamento strabico ed in più fastidiosamente irrealistico; ma sarà sempre meglio che strabuzzare gli occhi sull’attuale politica delle cose, sui capitoletti cioè della attuale gestione dell’ordinario.