L’intelligenza artificiale e i rischi per la democrazia. Bisogna iniziare a porsi delle domande, anche non ci sono ancora risposte
Sono passati 40 anni da quando Jürgen Habermas, il più autorevole filosofo tedesco, pubblicò l’opus magnum «La teoria dell’agire comunicativo», dove sosteneva che il progetto moderno sarebbe rimasto zoppo se, dopo il formidabile sviluppo della razionalità strumentale (legata al calcolo e all’efficienza), non fosse cresciuto anche un secondo pilastro della razionalità comunicativa. Ovvero la capacità delle persone e dei gruppi di esprimere liberamente nella sfera pubblica il proprio punto di vista mediante argomenti e ragioni, alla ricerca di un’intesa. Habermas scriveva all’epoca in cui già la televisione stava cominciando a cambiare pelle, nella direzione della spettacolarizzazione e della dipendenza dall’audience. Internet non c’era ancora e tanto meno lo smartphone e i social.
Il problema è che, nei successivi 40 anni, la realtà è andata in direzione del tutto diversa rispetto all’ipotesi del filosofo tedesco: la sfera pubblica contemporanea, più che un’arena di dibattito dove confrontarsi in base ad argomentazioni razionali è diventata un mercato in cui tutti gridano e dove i like e le visualizzazioni diventano gli unici criteri veritativi. Un mondo cacofonico che esaspera estremismi e conflittualità, creando un terreno fertile per le scorribande degli odiatori. In un ambiente comunicativo che ha dimostrato di non possedere anticorpi forti per difendersi dalle fake news e soprattutto dai deepfake (immagini prodotte digitalmente), distinguere il vero dal falso diventa sempre più difficile. Al punto che le opinioni pubbliche si ritrovano esposte a manipolazioni difficili da sventare.
In un anno eccezionale dal punto di vista del numero di elezioni (con circa 2 miliardi di persone che nel mondo saranno chiamate a votare), ci sono forti timori che l’uso spregiudicato della AI (l’intelligenza artificiale) possa incidere profondamente sui risultati. Il punto è che, con l’avvento di ChatGpt, lo sviluppo accelerato degli ultimi anni è destinato a subire un ulteriore salto evolutivo. La novità sta nel fatto che le nuove interfacce con cui lavora l’AI generativa sono dotate di competenze linguistiche formali così avanzate da rendere possibile la conversazione uomo-macchina e la creazione di contenuti inediti. Processando il linguaggio naturale, questi nuovi dispositivi non solo riconoscono la struttura sintattica, le regole grammaticali, la regolarità nella costruzione delle frasi. Ma, senza avere nulla a che fare con la capacità del cervello umano di costruire significati che consentono di agire sensatamente, essi sono in grado di costruire discorsi e immagini fondati sulla pura inferenza statistica.
Molto concretamente, la possibilità della «presa di parola» da parte della macchina implica il fatto che nella sfera pubblica circoleranno sempre di più testi, scritti, immagini a cui non sarà possibile attribuire una autorialità. Nessun riferimento al senso di ciò che significa oggi essere umani: alla nostra corporeità, al nostro essere allo stesso tempo intelletto e spirito, appartenenti a una particolare comunità sociale e culturale. Si tratta di un passaggio rilevante. Per la prima volta nella storia entriamo in un contesto in cui a essere messa in discussione è la prerogativa umana della parola: lo sviluppo del linguaggio sintetico è destinato infatti a decostruire gli apparati e i dispositivi su cui fonda l’autorità del parlante, della scrittura e della riproduzione dell’immagine.
Senza entrare nelle implicazioni filosofiche di queste trasformazioni, preme qui proporre una riflessione sul tema della democrazia. La quale, per ritornare ad Habermas, storicamente si sviluppa proprio nel momento in cui si forma l’opinione pubblica che, articolando la discussione tra punti di vista diversi sulla realtà, ha creato i presupposti del procedimento elettorale prima e di quello legislativo poi. Non a caso, l’istituzione fondamentale degli assetti democratici si chiama Parlamento, cioè il luogo in cui i rappresentanti del popolo discutono in modo aperto e pubblico, per arrivare poi alla determinazione politica. Si parla molto in questi ultimi mesi della tensione esistente tra democrazie e autocrazie. Ma questo confronto (che auspicabilmente non va trasformato in scontro) non riguarda solo i rapporti internazionali, bensì anche i processi sociali e decisionali interni ai singoli Paesi. Per noi democratici l’arrivo della macchina parlante costituisce una sfida: come salvaguardare quel delicato processo di formazione dell’opinione pubblica che è all’origine stessa della democrazia? Se i social, in combinazione con le conseguenze socioeconomiche della crisi finanziaria del 2008 e poi del Covid, hanno favorito i populismi, è lecito domandarsi quali saranno le conseguenze di questi ulteriori sviluppi tecnologici del sistema della comunicazione. Marshall McLuhan, l’insuperato studioso dei media, affermava che il «medium è il messaggio». Intendendo così dire che il mutamento del dispositivo tecnologico è portatore di un impatto che va compreso ancora prima dei significati che fa circolare. È cruciale allora cominciare da subito a porci delle domande, anche se ancora non abbiamo risposte.