C’è il rischio del trasferimento cognitivo – la delega delle attività mentali – a uno strumento esterno. Il pericolo è quello della graduale atrofizzazione del pensiero critico
«Un aspetto, tanto ironico quanto centrale, dell’automazione è che meccanizzando le attività di routine e lasciando la sola gestione delle eccezioni all’utente umano, si priva l’utente delle opportunità di routine per esercitare il proprio giudizio e rafforzare la propria muscolatura cognitiva, lasciandolo atrofizzato e impreparato quando si presentano le eccezioni». Logico, e allarmante: perché con questa frase, ricercatori della Carnegie Mellon e di Microsoft (azienda che nella genAi ha investito oltre 14 miliardi di dollari) hanno commentato la prima ricerca degli effetti della intelligenza artificiale generativa sulle prestazioni dei «lavoratori della conoscenza». Cioè quei professionisti che «creano» e «risolvono problemi». Il rischio è quello della graduale atrofizzazione del pensiero critico, valutato attraverso i comportamenti sul lavoro di più di 300 tra giornalisti, insegnanti, programmatori, artisti, responsabili amministrativi e finanziari. Come scrive Federico Cabitza, docente sul rapporto uomo-macchina alla Bicocca di Milano, il pericolo è quello del «cognitive offload», ossia il trasferimento cognitivo – la delega delle attività mentali – a uno strumento esterno. Questo avviene quando rendiamo inconsapevolmente l’intelligenza artificiale «un’autorità epistemica, cioè fonte affidabile di informazioni e giudizi attendibili».
Non si tratta solo di una perdita di capacità, ma della trasformazione del ruolo dell’intelligenza umana. Chiamata non più a eseguire un compito – scrivere un testo -, ma a supervisionare se lo strumento Ai l’ha portato a termine correttamente. Se la conferma della scienza di quanto già si sospettava è preoccupante, va detto che non è certo la prima volta che l’uomo nella sua Storia si trova di fronte a tecnologie che impattano sulla qualità del modo di ragionare. Tralasciando i più recenti calcolatrici e navigatori, Platone nel Fedro criticava i rischi derivanti dalla scrittura.E lo faceva – intorno al 370 a.C. – con argomentazioni non dissimili da quelle che troviamo nello studio: gli uomini «richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di sé stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei» e diventeranno «imbottiti di opinioni invece che sapienti». Ne siamo venuti a capo allora, lo faremo anche adesso. Sviluppando, come dice Cabitza, «un’interazione consapevole con le macchine», cioè un’intelligenza ibrida dove l’Ai resta uno strumento e non diventa un sostituto.