Cambiando il personale di vertice si finisce per precarizzare, fidelizzare e politicizzare tutta la fascia alta della burocrazia, con la conseguenza di aumentare i costi
Al giro di boa dell’anno di vita, il governo ha riordinato più di metà dell’esecutivo. L’ha fatto con decreti del presidente del Consiglio dei ministri e stabilendo la decadenza automatica delle esistenti posizioni dirigenziali delle strutture ministeriali. Le anomalie sono due. La legge del 1988, che regola la materia, vuole che organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche siano ordinati con regolamenti adottati con decreti del presidente della Repubblica, quindi passando al vaglio anche del Quirinale e delle commissioni parlamentari, due possibili scogli che il governo ha evitato. Inoltre, l’infausto sistema delle spoglie, cioè la decadenza dei dirigenti dell’amministrazione al mutare dei governi, era limitato, per legge, ai soli vertici (segretari generali, capi dipartimento, direttori di agenzie), mentre ora si estende in basso a tutta la dirigenza, cioè a migliaia di persone. Già in precedenza governi di altri colori avevano disposto la decadenza automatica e la riassegnazione degli incarichi dirigenziali, con provvedimenti, che, però, sono caduti sotto la scure della Corte costituzionale.
A queste anomalie si aggiungono alcune singolarità. La eufemistica dichiarazione che i decreti non comportano nuove o maggiori spese, una specie di tranquillante per la Ragioneria generale dello Stato, per farle chiudere ambedue gli occhi dinanzi alla moltiplicazione degli uffici di vertice. La sperimentazione della formula della decadenza, ma questa volta con decreto legge, anche per Inps ed Inail, dove, cambiando gli organi deliberativi, si coglie l’occasione per fare decadere anche i direttori generali. L’ampliamento del limite del 10 per cento della dotazione organica aperta alla nomina di esterni. Tutto questo rimaneggiamento della dirigenza, fatto con gli strumenti sbagliati, offre il fianco a molte critiche. Primo: potendo le forze politiche cambiare a discrezione, al mutamento dei governi, il personale di vertice (gabinetti divenuti ormai molto pletorici e tutti i dirigenti superiori), se si allungano le mani anche sui livelli dirigenziali inferiori, si finisce per precarizzare/fidelizzare/politicizzare tutta la fascia alta della burocrazia, con la conseguenza di aumentare i costi (perché i dirigenti sostituiti restano, comunque, nell’amministrazione con un incarico meno prestigioso o senza incarichi) e di violare il principio di imparzialità che dovrebbe reggere il pubblico impiego, secondo la Costituzione, contro l’interesse non solo della collettività, ma anche degli stessi uomini di governo, spinti a scegliere persone fedeli piuttosto che persone capaci. Tanto più che a questi vanno ad aggiungersi i circa 17 mila posti di amministratori delle società partecipate, sui quali c’è mano libera per la politica. Una dirigenza sottomessa ai vincitori non è solo in contrasto con la separazione politica — amministrazione, ma è anche in conflitto con l’interesse dei ministri ad avere collaboratori — esecutori capaci. Secondo: questa moltiplicazione di decadenze finisce per confermare una opinione diffusa per la quale i dirigenti dovrebbero godere della fiducia dei membri del corpo politico, mentre è interesse di tutti, oltre che obbligo costituzionale, che chi amministra dia garanzie di terzietà, per evitare favoritismi nella gestione pubblica. Terzo: la decadenza automatica dei dirigenti da riorganizzazione, quindi per cause diverse dalle vicende del rapporto di lavoro, è stata dichiarata illegittima costituzionalmente già nel 2017 e nel 2019 perché viola l’articolo 97 della Costituzione e il buon andamento dell’amministrazione. Quarto: come ha osservato Giovanni Orsina su La Stampa del 5 gennaio scorso, chi governa deve trovare una propria misura nell’affrontare le tradizioni amministrative e le persone e competenze che affollano le strutture dello Stato, deve guidarle rispettandone le prerogative, tanto più — si può aggiungere — che gli incarichi dirigenziali hanno durata breve, da tre a cinque anni, e nessuno dovrebbe subire la perdita dell’incarico senza almeno una contestazione degli addebiti e un contraddittorio.
Infine, come ha osservato uno studioso di vaglia, Benedetto Cimino, in un articolo appena pubblicato nel Giornale di diritto amministrativo numero 6 del 2023, il pubblico impiego è ora stretto tra le aggressioni sindacali e l’invadenza della politica. Preso in questa tenaglia, riuscirà a salvarsi? Potremo poi noi lamentarci della inefficienza burocratica, se non si rispetta il criterio del merito nella gestione pubblica? C’è un’ultima considerazione da svolgere, che riguarda la disattenzione generale dell’opposizione per questo tipo di problemi. L’opposizione, il cui compito sarebbe di tallonare il governo — forse perché essa stessa, quando era al governo, si era lamentata dei mandarini che «remano contro» ed aveva abusato dell’amministrazione —, sembra ora andare a caccia di farfalle. Per cui la politica italiana si svolge su due piani, tra loro non comunicanti. Quello dei fatti e quello delle dichiarazioni. Queste ultime distolgono l’attenzione dai primi. L’opposizione sembra incapace persino di leggere la Gazzetta ufficiale, ormai liberamente consultabile on line, per accorgersi di quanto viene deciso nelle stanze del potere. La sua politica diventa in questo modo esangue, resta in superficie e si arrampica sul quotidiano, senza riuscire a vedere e valutare come il governo amministra. Viene a mancare quella dialettica che costituisce il sangue della democrazia.