20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Polito

I nostri partner ci stanno isolando. E questo è pericoloso. Ma si ha anche la sensazione che il governo italiano stia deliberatamente cercando più che una trattativa sul deficit un’occasione di scontro politico


Non sarà una buona domenica per i sovranisti. Alle ore undici dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese dell’anno, un secolo dopo, sessanta capi di Stato celebreranno a Parigi la fine dell’«inutile strage», come Benedetto XV definì la Prima Guerra Mondiale, condannando i nazionalismi che la provocarono. Almeno per un giorno, gli idoli dell’anti-europeismo sovranista, Trump e Putin, renderanno invece omaggio alla vecchia Europa liberale, e stringeranno la mano a Emmanuel Macron davanti all’Arco di Trionfo. E la signora Merkel, seppure sul viale del tramonto, porterà ancora una volta la contrizione della Germania a Parigi, deponendola sull’altare dell’asse franco-tedesco; come Helmut Kohl nel 1984 a Verdun, quando prese per mano Mitterrand davanti al cimitero della più sanguinosa battaglia della storia, ottocentomila vittime in dieci chilometri quadrati di fango.
Il centenario di Parigi, così come è avvenuto per quello «italiano» del Quattro Novembre, sarà l’occasione di bei discorsi e buoni propositi. Pacifismo innanzitutto. Ma anche promesse di cooperazione, di frontiere aperte, di amicizia tra i popoli. Per un giorno taceranno i nazionalismi, tornati a soffiare così impetuosi in Europa e nel mondo. Neanche il tentativo della destra tricolore italiana di spremere dall’anniversario di Vittorio Veneto un po’ di sciovinismo ha prodotto risultati. Nessuno può rimpiangere quei tempi.
Ma passato il centenario del 1918, verrà quello del 1919. E qui le cose cambiano, almeno in Italia, visto che da noi fu un anno talmente cruciale e terribile da passare alla storia per la definizione di «diciannovismo». Che da allora si riferisce al clima sovreccitato, violento, torbido, da guerra civile, in cui la sinistra massimalista tentò di fare i soviet anche da noi, e la destra nazionalista e fascista, tra l’altro in gran parte proveniente dalle file del socialismo e dell’anarchismo, sfruttò le tensioni e le paure delle classi medie per impadronirsi con le spicce del potere. Nel 1919 cominciarono le occupazioni dei campi del Sud e delle fabbriche del Nord che diedero il via al «Biennio rosso». E nel 1919 furono fondati a Milano i Fasci di combattimento di Benito Mussolini.
Sarà (anche) per questa ricorrenza temporale che il nostro dibattito pubblico ha ricominciato a parlare di fascismo. Spesso a sproposito, proponendo «fascistometri» che misurano più il tasso di radicalismo chic che di liberalismo. Almeno a parole, una certa retorica «insurrezionale» in giro si avverte (perfino il moderato Bruno Vespa ha titolato quest’anno il suo libro Rivoluzione). Ma finché si limita a far rotolare le teste degli amministratori delegati di Ferrovie e Anas non c’è da preoccuparsi troppo. Il fascismo, insomma, non è davvero alle porte. Come ha ricordato Giuliano Ferrara, ci vuole una guerra, la consuetudine con la violenza, un arditismo da trincea, milioni di reduci e migliaia di mutilati, per fare il fascismo. La democrazia italiana resta solida: è in mano a un’opinione pubblica sempre in cerca dell’«uomo forte», è vero, ma anche così umorale e mobile da buttarne giù uno ogni paio d’anni per passare al prossimo.
Esiste però un’inquietante somiglianza con il clima di un secolo fa. E la si ritrova in quella retorica da «vittoria mutilata» cui le nostri classi dirigenti politiche spesso indulgono per giustificare i propri limiti e per spiegare eventuali insuccessi. Alla conferenza di pace di Parigi, nel 1919, il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino si alzarono dal tavolo e abbandonarono i lavori per protesta contro le potenze vincitrici, che non riconobbero all’Italia la Dalmazia promessa e la città di Fiume rivendicata. Ne seguì una grande agitazione nelle piazze, cui venne dato in pasto il vittimismo di un paese tradito, pugnalato alle spalle, che aveva versato invano il suo sangue sui campi di battaglia. Da quella immagine della «vittoria mutilata», distillata proprio sul Corriere dalla penna geniale di D’Annunzio, si generò il revanscismo che ci condusse alla marcia su Roma, alle sanzioni e all’autarchia, fino alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, combattuta stavolta (e persa) contro le democrazie.
Orlando e Sonnino dovettero tornare quindici giorni dopo con la coda tra le gambe al tavolo della pace: trovarono il pranzo già finito. C’è da sperare che non ci sia oggi nessuno, né a Bruxelles né a Roma, che sia tentato di compiere lo stesso errore, quando tra qualche giorno la Commissione Europea dovrà decidere se punirci per il nostro deficit eccessivo.
I nostri partner ci stanno isolando. E questo è pericoloso. Ma si ha anche la sensazione che il governo italiano stia deliberatamente cercando più che una trattativa sul deficit un’occasione di scontro politico. Forse per dare un colpo mortale all’Unione ingraziandosi Putin, forse per prendere voti alle prossime europee (Salvini è il leader di fatto dello schieramento pan-sovranista), forse per precostituirsi un capro espiatorio in caso di fallimento delle loro politiche economiche. Fatto sta che l’idea che veicolano è proprio questa: abbiamo vinto la guerra elettorale, e ora ogni cedimento sulle nostre promesse sarebbe una vittoria mutilata. Il reddito di cittadinanza e quota 100 come la Dalmazia e Fiume.
Il vero pericolo del 2019 italiano è dunque qui. Se la Dalmazia, per qualsiasi motivo, non dovesse alla fine arrivare, i nostri governanti proveranno a convincere gli italiani che la colpa è dei poteri di controllo, dei burocrati, dei media, del parlamento, di Draghi, dell’Europa. Tenteranno di mettere insomma il popolo, che essi dichiarano di rappresentare, contro la democrazia e il suo sistema di garanzie. E sarebbe la prima volta, dalla caduta del fascismo ad oggi, che il gioco può riuscire, trasformando così anche il ‘19 del nuovo secolo in un anno buio della nostra storia.

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