23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Camera

di Stefano Passigli

La mancata pronuncia della Corte Costituzionale rischia di portare consenso al voto a favore dei partiti antisistema

Il vivace scambio di opinioni nel Forum di Cernobbio tra il ministro Boschi e l’ex premier Monti circa l’impatto che le riforme del governo possono avere sulla nostra economia è un buon esempio di come spesso il dibattito politico si fondi su travisamenti della realtà. Nel Forum era stato presentato uno studio che, pur affermando che l’Italia avrà bisogno di almeno 8 anni per tornare ai livelli pre-crisi del 2008, prevedeva che nel medio termine i redditi pro-capite e i consumi potessero incrementarsi significativamente. Anche se nessuno ha ricordato che queste previsioni si fondavano sull’eroico assunto che non intervenissero modifiche nelle grandezze economiche e geo-politiche che maggiormente influenzano l’economia di un paese (costo del petrolio e materie prime, rapporto tra valute e tassi di interesse, trattati ed evoluzione del commercio internazionale, conflitti militari, etc.), lo studio ha permesso al ministro Boschi di affermare che le riforme istituzionali volute dal Governo oltre a semplificare la vita delle imprese daranno una grande spinta all’economia, e al professor Monti di controbattere che la riforma costituzionale «non andrebbe sovracaricata di aspettative in tema di effetti positivi prodotti sull’economia» e di ricordare come «non sia Bruxelles a chiederci una riforma della Costituzione».

Chi aveva ragione tra i due contendenti? La risposta è semplice: entrambi. Le riforme meritano infatti un giudizio diverso a seconda che si faccia riferimento alla Costituzione e alla legge elettorale, oppure alla riforma del mercato del lavoro attuata con il Jobs Act, della giustizia, delle Banche Popolari e del Credito Cooperativo, e soprattutto della Pubblica amministrazione. Queste ultime sono riforme strutturali da cui la nostra economia può attendersi benefici effetti. Assieme al minor carico fiscale per le imprese, agli investimenti sulla banda larga, al progettato aumento delle pensioni minime, sono il cuore delle politiche di governo dell’Esecutivo a guida Renzi, sulle quali è lecito esprimere un giudizio positivo.

Se invece guardiamo alla riforma costituzionale e della legge elettorale, allora il giudizio del professor Monti è pienamente valido: niente nella riforma del Senato e nell’Italicum autorizza l’entusiastico tam tam a loro sostegno di incauti ambasciatori e solerti commentatori, né a sostenere che i costi della politica diminuiranno, che il processo legislativo sarà più veloce, e soprattutto che la nostra economia ne beneficerà. In altre parole, si può approvare le politiche di governo dell’attuale Esecutivo, ma mantenere un giudizio critico sulle sue forzature in materia istituzionale, giunte sino a porre la fiducia sulla legge elettorale e a sostituire nelle Commissioni parlamentari i membri del Pd dissenzienti. È insomma opportuno distinguere tra «politiche di governo» — su cui è fisiologico un continuo confronto tra maggioranza e opposizione — e quelle che potremo chiamare «politiche del Paese» (riforme costituzionali ed elettorali, giustizia, politica estera, ma anche scuola, università e ricerca), su cui la continuità è essenziale ed è patologico si decida a colpi di maggioranza con continui cambiamenti di rotta al mutare delle maggioranze di governo.

Quando alcuni leader di grandi Paesi, o prestigiose testate internazionali, si esprimono a favore delle nostre riforme, essi fanno riferimento alle concrete politiche di governo, e non alla pasticciata composizione del nostro futuro Senato e alle sue confuse competenze legislative, o ad una legge elettorale che — anche senza citare l’abnorme premio di maggioranza che può giungere a raddoppiare il numero di seggi spettanti al partito vincente — mantiene lo scandalo delle candidature plurime e della nomina di circa metà del Parlamento da parte dei segretari di partito, elementi questi già giudicati illegittimi dalla Corte costituzionale.

In proposito è deprecabile che la Corte abbia deciso di rinviare la seduta già programmata non pronunciandosi così sulla legittimità dell’Italicum prima del Referendum. Una pronuncia avrebbe favorito la trasparenza del giudizio che i cittadini saranno chiamati a dare nel referendum, dato che la riforma della Costituzione avrà un ben diverso esito se unita alla concentrazione di potere nelle mani del Premier di turno determinata dall’Italicum, o ad una diversa legge elettorale che mantenga al Parlamento e alle magistrature di garanzia il loro tradizionale ruolo. Piaccia o meno, la forma di governo e l’indipendenza dei grandi organi costituzionali dipendono non solo dalla Costituzione ma anche dalla legge elettorale. Un governo che su di essa ha posto la questione di fiducia, e la Corte costituzionale suprema garante della sua legittimità, hanno il dovere di pronunciarsi prima del voto referendario. Non averlo fatto rischia di portare ulteriore consenso al voto a favore dei partiti antisistema.

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