21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Gian Antonio Stella

E rischia di non essere ancora finita. Certo, siamo tutti appesi alla speranza che questo grappolo di terremoti che da mesi devasta l’Appennino abbia finalmente fine. La storia dice che prima o poi dovranno ben esaurirsi, questi scossoni che spezzano la spina dorsale dell’Italia seminando lutti e annientando quei bellissimi borghi antichi che sono la nostra anima. Ultimi fra i tanti Ussita, Castelluccio, Norcia. Dove la Basilica di San Benedetto è crollata in una nuvola di polvere. Un popolo serio e uno Stato all’altezza, però, devono aver chiaro che forse non è finita. E che è del tutto inutile fare gli scongiuri. Occorrono progetti, visioni, scadenze. Quella stessa storia millenaria della nostra terra che ci incoraggia a confidare nella fine dell’incubo ci ricorda infatti che è già successo. L’abbiamo rimosso, ma è già successo. Più volte. Non solo dal 1315 gli Appennini sono stati sconvolti da 149 scosse superiori a 5,5 gradi della scala Richter e quasi tutte con danni gravissimi.
Ma, spiega la storica Emanuela Guidoboni, «cluster» di terremoti simili a quello attuale sono stati registrati lungo la schiena della penisola almeno cinque volte: nel 1349, 1456, 1638, 1703 e 1783. Di più: nelle aree a elevato rischio sismico, che valgono il 50% circa del territorio e il 38% dei comuni, ci sono 6 milioni e 267 mila edifici. Molti bellissimi e costruiti secoli fa, altri decorosi tirati su più recentemente, altri ancora orrendi e ammassati senza alcuna attenzione ai problemi del territorio negli ultimi settant’anni. Ci vivono, complessivamente, 24 milioni e 147 mila persone. Non consapevoli, per usare un eufemismo, dei pericoli che corrono. Dice tutto una ricerca del 2012 di Cresme, Ance e Consiglio nazionale degli architetti: un quarto degli edifici è in condizione mediocre o pessima. «Sebbene la normativa antisismica per le costruzioni abbia più di trent’anni, solo una minima parte degli edifici realizzati in questo periodo nelle attuali zone ad elevato rischio è stata costruita secondo criteri antisismici». Eppure il 45 per cento delle persone, pur sapendo di vivere in aree a rischio, «ritiene che la sua abitazione sia costruita con criteri anti-sismici». Anzi, una su tre pensa che basti risanare le strutture ogni 40 anni o 60. Per non dire di chi ritiene bastare una ristrutturazione al secolo. Ciechi.
Per salvare il nostro patrimonio abitativo, storico, monumentale, scolastico e salvare chi ci vive dentro non basta dunque accorrere in soccorso alle popolazioni ogni volta che c’è una calamità. Calamità sismiche o idrogeologiche che, tra parentesi, son costate dal 1944 al 2009, secondo le stime, da 176 a 213 miliardi. Una cifra mostruosa destinata a crescere. Non basta. Occorre un patto nazionale all’altezza dell’emergenza. Dirà Matteo Renzi: c’è già, Casa Italia. Nel nome e negli obiettivi, può darsi. Di fatto, però, manca il cemento fondamentale per cominciare a restituire agli italiani, che già avevano il morale basso e oggi sono ancora più scossi, quella speranza di poter vivere nei loro centri storici risanati e sicuri. Il cemento di una solidarietà nazionale che vada oltre il mesto bla-bla di circostanza. Lo sappiamo: è impensabile che questi rissosissimi partiti, con l’aria che tira, trovino un accordo su un ogni altra cosa. Almeno su un grande patto di salvezza nazionale, magari sottratto a partiti e maggioranze e fazioni e delegato a un’agenzia messa su da tutti che si occupi «solo» di questo, però, è doveroso pretendere una svolta. Radicale. Quanti altri terremoti o alluvioni devono colpirci perché la politica abbia uno scatto di orgoglio e di decenza all’altezza di quanto i volontari quotidianamente fanno senza badare alle tessere?
E insieme, finalmente, dovrà partire una grande offensiva culturale nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nella società, che diffonda fra gli italiani la coscienza dei rischi che corrono. E di quanto tocchi anche a loro, e non solo genericamente «allo Stato», il dovere (il dovere: non la facoltà) di farsi carico della loro parte di responsabilità. Né i cittadini possono aspettarsi che le casse pubbliche siano in grado di farsi carico di ricostruire tutto a spese della collettività: non possono farcela. E sarebbe ora che si cominciasse a prendere in esame (con cautela e buon senso, ovvio) quell’assicurazione obbligatoria contro le catastrofi che già è prevista in tanti paesi, dal Belgio alla Francia, dalla Norvegia alla Spagna o alla Romania. Ce l’ha, questo Paese, la forza e l’ambizione per prendere di petto i problemi epocali posti dagli eventi di queste settimane? Di avviare davvero, con regole nette e meno burocrazia, il risanamento del nostro territorio e dei nostri scrigni storici? Noi pensiamo di sì. Ma lo sforzo deve essere corale. È una sfida troppo seria per smarrirsi in guerricciole di bottega…

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