20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Maurizio Ferrera


La lunga crisi economico-finanziaria ha creato forti contrapposizioni fra gli Stati europei. Quel poco di identità comune costruita nel corso dei decenni si è significativamente erosa e, con essa, la legittimità della Ue come istituzione dotata di competenze e poteri sovranazionali. In un simile contesto, bene hanno fatto Esposito e Galli della Loggia (Corriere di lunedì) a richiamare l’attenzione sul tema dell’identità europea. Senza un senso di comune appartenenza, nessuna istituzione di «governo» può funzionare e persino sopravvivere. L’identità è un mix di sentimenti e credenze (memorie storiche, valori, conoscenze e interpretazioni condivise). Le sue origini e il suo radicamento nelle coscienze individuali sono una questione di contenuti e al tempo stesso di processi: interazioni, confronti, esperienze collettive. Come notano Esposito e Galli della Loggia, per forgiare identità stabili e consolidare nuove comunità territoriali le interazioni debbono anche riguardare questioni squisitamente politiche: chi decide cosa? E, prima ancora, perché dobbiamo stare insieme e sottoporci a un’autorità comune? Negli anni Cinquanta l’Europa nacque sulla scia di domande simili e, seppur fragile, il contenitore identitario si è formato. Ma oggi rischia di rompersi.
La proposta che Esposito e Galli formulano per scongiurare questo rischio è molto ambiziosa: l’elezione diretta, da parte dell’intero corpo elettorale europeo, di un presidente Ue e di due vicepresidenti, uno per gli esteri e l’altro per la difesa. Un simile passo richiede naturalmente una incisiva revisione dei Trattati, processo lungo e faticoso. Nell’attesa, conviene forse immaginare qualcosa di meno impegnativo ma pur sempre utile sul piano identitario. I fronti su cui lavorare sono essenzialmente due: rilanciare il principio dell’eguaglianza politica fra Paesi membri; promuovere un nuovo equilibrio fra la cultura (germanica) della stabilità e la cultura (greco-latina) della solidarietà. In base ai Trattati, i Paesi membri sono tutti uguali. Progressivamente il loro peso decisionale è stato calibrato in base alla popolazione. Sulla scia delle riforme introdotte durante la crisi, gli attuali sistemi di voto tendono però oggettivamente a favorire le coalizioni fra Paesi del Nord, imperniate sulla Germania. Inoltre, le pratiche informali del Consiglio sono, spesso, spudoratamente asimmetriche. Nei negoziati sul bail out della Grecia, i rappresentanti eletti del popolo ellenico sono stati spesso trattati come zombie (l’espressione è di Habermas), alla mercé di improvvisati direttori fra potenti, sempre presieduti da Merkel e/o Schäuble. Come stupirsi se poi gli elettori votano sulla base di interessi e identità esclusivamente nazionali?
Il secondo nodo riguarda il nesso fra responsabilità nazionali e solidarietà paneuropea. Durante la crisi, l’Europa si è trasformata in una Unione di «aggiustamenti fiscali» su base nazionale (i famosi compiti a casa), all’interno di un rigido quadro di regole e sanzioni disciplinari. Lo spirito della coesione sociale e territoriale, nato nei lontani anni Settanta, è andato quasi completamente smarrito. Un paradosso, visto che nel frattempo l’Unione economica e monetaria ha moltiplicato le interdipendenze fra Paesi. Il compito di affrontare le sfide dell’eguaglianza e della solidarietà spetta alle élite. Ciò che serve è un chiarimento politico-culturale serio, anche duro, fra i leader europei, soprattutto all’interno dell’eurozona. A metà degli anni Ottanta, al fine di lanciare il cosiddetto dialogo sociale europeo, Jacque Delors rinchiuse imprenditori e sindacati — che non facevano che litigare — nel castello di Val Duchesse in Belgio fino a quando non si accordarono. Oggi abbiamo bisogno di una nuova e ambiziosa Val Duchesse. Questa volta per lanciare un dialogo europeo su «responsabilità e solidarietà fra eguali». Naturalmente una simile iniziativa sarebbe inizialmente divisiva: il suo scopo dovrebbe proprio essere quello di alzare la polvere sotto i tappeti. Ma il percorso di formazione degli stati nazionali (soprattutto quelli multireligiosi e/o multinazionali) è stato punteggiato di momenti di contrasto fra élite, seguiti da qualche accordo «consociativo» volto proprio a tenere assieme comunità territoriali fragili ed eterogenee e accompagnarle verso la piena democratizzazione. Certo, i Trattati andranno prima o poi cambiati. Ma senza un nuovo patto politico-culturale fra chi oggi rappresenta e guida i popoli europei, nessun progresso istituzionale sarà possibile. E il declino della Ue diventerà a questo punto irreversibile.

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