Fonte: Corriere della Sera
di Roberta Scorranese
Tra siti, musei e palazzi storici abbiamo 33 «perle» per ogni 100 km quadrati. E con i recenti fondi alla cultura, qualcosa si muove. Ma la mappa dei beni «a rischio» è fitta
Nel cuore di Roma, vicino a via del Corso, c’è una chiesa che dà le spalle al centro. La facciata è sobria, ma se si apre il portone e si varca la soglia, ecco che un cielo pieno di santi, gloria e colori precipita sulle teste dei visitatori, con una potenza simile a una musica barocca. È la «quadratura», virtuosismo pittorico che fratel Andrea Pozzo, artista gesuita vissuto a metà ’600, realizzò nella chiesa di Sant’Ignazio, fulcro del complesso romano della Compagnia di Gesù. Con padre Vitale Savio, rettore della Chiesa, saliamo al piano superiore, dove la finta cupola, altro capolavoro di trompe-l’œil, si può quasi toccare. Ma qui l’illusione, così meticolosamente cercata da fratel Pozzo, si spezza davanti a grandi macchie di muffa che affiorano dalle cappelle, da lunghe crepe che attraversano le delicate volte laterali e da un buco nel pavimento («Lo abbiamo ricoperto anche perché i visitatori si portavano a casa un souvenir»): quello che, entrando, pareva un paradiso in caduta, da vicino si rivela un bellissimo corpo aggredito da una malattia.
Non ancora grave, ma rischiosa. E, alle pareti, accanto agli affreschi, pulsano dei piccoli cuori neri, in metallo: sono sensori (realizzati da Spin Italia, Lem e Step Over) del progetto SMPPC-PRA che monitorano lo stato di salute della chiesa, l’andamento delle crepe (si pensi solo che qui passano quasi tremila persone al giorno) e il degrado delle pitture. Impercettibili segnali che vengono inviati ad un’applicazione, nella quale quella piccola fenditura sul fondo della parete si ingrandisce e batte come un’arteria. «Intendiamoci — dice padre Savio —: il Fec, Fondo edifici di culto del Governo, si interessa allo stato della chiesa e si sta lavorando per intervenire», però questo gioiello barocco è il simbolo di una condizione che caratterizza centinaia di beni architettonici e artistici in italia: la salute cagionevole. Il sistema fortificatorio di Palmanova, quella magnifica stella seicentesca a nove punte, in alcuni tratti è invasa dalle sterpaglie e l’ultimo crollo, nella parte superiore della controporta di porta Cividale, è del gennaio scorso (di recente l’amministrazione locale ha promesso l’intervento dei forestali d’inverno per la pulizia e la manutenzione). Oppure il Castello Svevo di Augusta, nel Siracusano, fortezza federiciana del XIII secolo: a febbraio, la Procura della Repubblica ha messo i sigilli al monumento, poiché il rischio di cedimenti era troppo alto. Questa mappa dei beni a rischio, che Italia Nostra ha composto con le indagini delle sue sezioni locali, parla chiaro: bisogna agire subito.
Perché la salvaguardia di un patrimonio come quello italiano, dove si trovano 33 «tesori» ogni 100 km quadrati (dati Istat del 2013) non è fatta solo dai riflettori che si accendono quando a Pompei crolla una parete o quando, periodicamente, avviene un furto clamoroso nei musei: «La cura — ribadisce Marco Parini, presidente di Italia Nostra — è soprattutto la prevenzione, la manutenzione regolare». È questo il momento giusto per parlare di sicurezza di chiese, musei e aree archeologiche? Sembrerebbe di sì. «Perché mai come adesso — dice Marco Magnifico, vice presidente del Fai — abbiamo visto tanta attenzione ai tesori artistici, sia da parte del ministero che dei cittadini». Infatti, se è vero che fa notizia il miliardo (fondi Cipe) stanziato dal ministero dei Beni Culturali a monumenti che vanno dal Ducato Estense alla Grande Brera, forse fa riflettere di più il dato che il Fai fornisce al «Corriere» nel giorno in cui presenta la nuova edizione de I luoghi del cuore, il censimento del posti da salvare: «Nel 2015 hanno risposto al nostro appello un milione e 600 mila cittadini, mentre gli iscritti sono aumentati del 22%».
Cresce, insomma, l’impegno dei singoli. E la conoscenza del territorio. Forse è arrivato il momento, anche qui, di non parlare più, genericamente, di finanziamenti, di aiuti a pioggia, ma di andare a fondo, discutere di professionalità giuste, calibrare bene le cose che servono. Per esempio, un settore apparentemente «di nicchia» come il turismo nei giardini di pregio, solo nel 2014 ha generato 8 milioni di visitatori nella rete dei Grandi Giardini Italiani. Ebbene, quanti sanno che la professione del giardiniere specializzato, in Italia, sta morendo? «Prima c’era la famosa scuola di Roma, che formava gli specialisti, oggi rimane solo quella di Monza», fa notare Bruno Lapadula, della sezione romana di Italia Nostra. Quella romana, infatti, che preparava le figure più raffinate, oggi è un semplice centro di formazione e aggiornamento rivolto al pubblico. E a Monza studiano soprattutto gli stranieri, i quali sanno bene che il giardiniere non è solo quello che sarchia e pota, ma è anche quello che ti spiega la storia di quella peonia o di una rosa antica.
Così come servirebbe uno specialista della sicurezza di musei, gallerie e biblioteche, il «security manager», figura che da noi non esiste. A Milano ha sede una delle pochissime (forse è un unicum) fondazioni che si occupano della protezione di musei, gallerie e luoghi culturali, la Fondazione «Enzo Hruby», della omonima famiglia che da anni realizza impianti di sicurezza ad hoc per posti deputati alla cultura. Ogni anno la Fondazione finanzia progetti che vanno a blindare luoghi come la Biblioteca della Basilica di San Francesco d’Assisi o, progetto in corso, lo Scrigno dei Tesori del Museo del Violino di Cremona. Il vice presidente, Carlo Hruby, spiega: «Non si tratta solo di furti, anche se questo resta il fattore di rischio maggiore. Si tratta anche di proteggere quelle migliaia di capolavori che abbiamo dalla sbadataggine dei visitatori o dalle folle. Ma, nel caso dei furti, stando alla mia esperienza, posso dire che la maggior parte dei musei ha, sì, degli allarmi, ma spesso sono poco aggiornati. La moderna tecnologia mette a disposizione dei sensori quasi invisibili che registrano minuzie come lo spostamento d’aria. E costano poco, certamente meno di quello che si spende per recuperare tele oggetto di furto». Per Hruby, che conosce bene quasi tutti i musei italiani, appena «il 10 per cento può dirsi blindato, cioè con quei sistemi che possano garantire la protezione più totale». Un dato: nel 2014 il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, ha recuperato 135 mila opere rubate, per un valore di 80 milioni di euro. Secondo l’Arma, il 40% dei beni trafugati proviene dalle chiese. Lo stesso padre Savio, di Sant’Ignazio a Roma, scuote la testa: «Il luogo di culto deve essere aperto, per sua natura». Sì, ma come la mettiamo con le migliaia di opere d’arte?
Un altro punto debole sono le biblioteche. «Il libro è una delle cose più fragili, sia per la conservazione che per la protezione — dice Daniele Jalla, presidente di ICOM Italia (International Council of Museums) —. Sapete qual è uno dei furti più comuni? Quello delle raffigurazioni di pregio nei libri antichi»: un paio di forbici, la distrazione dell’addetto alla biblioteca e via. Cresce la sensibilità dei cittadini Antonia Pasqua Recchia, la prima donna segretario generale del Mibac (per capirci, colei che ha seguito da vicino la rinascita della Reggia di Carditello), è ottimista: «La valorizzazione del patrimonio è una questione di territorio. Per dire, stiamo facendo un lavoro sui cammini religiosi che andrà a giovare a intere zone. Ma credo che gli italiani siano oggi molto più sensibili. Penso ai risultati dell’Art Bonus, che ha premiato soprattutto progetti locali». Vero: a febbraio 2016, su 60 milioni e 692 mila euro di contributi privati alla cultura versati fino al 28 gennaio con il meccanismo dell’Art Bonus, 34 milioni e 534 mila, cioè il 57%, sono andati a favore delle fondazioni lirico-sinfoniche e dei teatri di tradizione. È un riprendersi il territorio che fa ben sperare anche a chi studia la Lista Rossa di Italia Nostra, l’elenco di beni a rischio.
Ecco perché è questo il momento giusto per puntare i riflettori su casi meno eclatanti di Pompei, ma ugualmente importanti. La piana di Sibari, per esempio, quell’area archeologica affiorata in minima parte (si parla di appena il 10 per cento) che potrebbe diventare una seconda Pompei e che, invece, come denuncia Angelo Malatacca di Italia Nostra, è abbandonata a se stessa per intere porzioni, tanto che le auto (in certi tratti) sfiorano i confini dell’area. Come l’ex DSSE, Direzione Superiore Studi ed Esperienze, dell’Aeroporto A. Barbieri di Guidonia, testimonianza dell’eccellenza dell’aeronautica italiana tra gli anni ‘20 e ‘40, mai valorizzato. È ora di apporre in tutto il Paese quei piccoli cuori neri che «ascoltano» il battito della chiesa di Sant’Ignazio. Dal cortile della quale, a proposito, si può scorgere la finestra del ministro dei Beni Culturali. Un segnale che cade dal cielo?