Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Il Pd non sembra rendersi conto che l’attuale sistema elettorale non consente il successo di partiti sprovvisti di un baricentro e di due o tre (non cento, duecento) punti programmatici ben identificabili
È possibile che, già alle elezioni europee, il Pd cresca, si ricollochi intorno al 20% e che, forse, oltrepassi persino quella soglia. Qualora però il Partito democratico riuscisse a scavalcare il M5S, è probabile che lo si debba più al crollo del movimento di Di Maio che alla crescita della formazione fondata dodici anni fa da Walter Veltroni. Comunque il risultato sarebbe degno di nota e il partito zingarettiano potrebbe essere aiutato in questa impresa dal recupero di alcuni fuorusciti che a suo tempo seguirono Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema nella sfortunata avventura di Liberi e uguali. Recupero con cui il nuovo segretario ha deciso di cimentarsi, immaginiamo, più per lanciare un rassicurante messaggio di ricomposizione che per provocare lo spostamento di grandi masse elettorali. Detto questo, l’idea messa in campo da Paolo Gentiloni e Carlo Calenda che sia fin d’ora possibile «sfidare» addirittura il partito di Matteo Salvini (avvicinandosi, si presume, a quota 30%) appare allo stato delle cose eccessivamente ambiziosa. Prima di arrivare a quelle altezze, il partito dovrebbe essere in grado di indicare passo dopo passo qual è il sentiero che porta in cima alla montagna dei suffragi. Tanto più che alla destra del Pd, in «direzione centro», non si scorgono grandi opportunità di sfondamento, né si intravedono in quel territorio formazioni di un qualche spessore con cui si possa all’occorrenza interloquire. Allo stato attuale su quel confine rispetto al Pd c’è Forza Italia, nient’altro che abbia più del 4 per cento.
È sulla base di quest’ultima considerazione che al Partito democratico converrebbe si sviluppassero in quell’area uno o due partiti capaci di conquistare più della menzionata soglia di sbarramento. Ma, eccezion fatta forse per Emma Bonino, nessuno sembra intenzionato a rimboccarsi le maniche per il rimboschimento dei territori che anticamente conobbero la grande foresta di Dc, Pri, Psdi e Pri e in tempi recenti la più modesta piantagione di Mario Monti. Ed è possibile che l’encomiabile sforzo della Bonino — se verrà lasciata sola e i suoi sodali correranno a candidarsi nelle liste del Pd — non riuscirà ad ottenere la rivitalizzazione di quell’area che ai tempi della prima e della seconda repubblica ospitò il perno del sistema politico italiano. Tanto più che non può attualmente essere considerato (come disse a suo tempo Bersani) «di centro» il Movimento cinque stelle, il quale, qualora entrasse in crisi, potrebbe sì essere indotto a guardare nuovamente a sinistra ma cercando un dialogo con i fuorusciti o i settori più agguerriti del Partito democratico, non certo con la sua parte più moderata.
C’è poi un’altra questione di cui il Pd non sembra rendersi conto: l’attuale sistema elettorale non consente il successo di partiti sprovvisti di un baricentro e di due o tre (non cento, duecento) punti programmatici ben identificabili. Parliamo di proposte connotanti come furono alle scorse elezioni – sul fronte opposto a quello di sinistra – il reddito di cittadinanza, la flat tax, la revisione della legge Fornero, le restrizioni nei confronti dei migranti. Nei sistemi maggioritari (come sono tuttora quelli delle elezioni comunali e regionali) si può correre anche senza grandi idee di programma, confidando nelle leadership; in quelli proporzionali (come è per le elezioni politiche) servono due o tre idee forti che siano magnetiche nel dibattito preelettorale, si imprimano nella memoria, e possano rivelarsi vincenti, anche al di là della loro piena realizzabilità. Da tempo immemorabile, di questo tipo di proposte la sinistra ne produce poche (o troppe, che è lo stesso) confidando eccessivamente nell’attività di contrasto a quelle degli avversari.
Forse si è resa conto di questo problema, tant’è che negli ultimi giorni — sulla scia dell’emozione per il gesto di Ramy, il tredicenne di origini egiziane che mercoledì scorso con una telefonata ha sventato il dirottamento del bus guidato da Osseynou Sy — molti dirigenti del Pd hanno riscoperto lo «ius soli», il diritto di cittadinanza per gli extracomunitari nati in Italia. L’ex ministro Graziano Del Rio e Walter Veltroni si sono spinti ad accusare il proprio partito di «mancanza di coraggio» per non aver imposto lo ius soli con una mozione di fiducia alla viglia delle elezioni dell’anno passato facendone così un elemento centrale della campagna elettorale. Può darsi che Del Rio e Veltroni abbiano ragione, che lo «ius soli» avrebbe favorito una più definita connotazione identitaria della sinistra facendole guadagnare un maggior numero di voti. E che quindi sia opportuno riproporlo adesso. Ma — al di là del fatto che chi scrive condivide appieno il principio dello ius soli — deve essere chiaro che mentre ai cittadini comuni, ai giornalisti, ai vescovi, ai cantanti, agli scrittori, agli artisti è concesso di manifestare le proprie opinioni senza darsi cura delle conseguenze elettorali, ai leader politici non dovrebbe essere consentito di dare testimonianza del proprio «coraggio» ad eventuale detrimento del volume di consensi che si riuscirà poi a conquistare sul campo. I capi di un partito a «vocazione maggioritaria» dovrebbero, per definizione, dare un seguito a quella «vocazione» e prendere la maggioranza dei voti. Quantomeno quella relativa. A loro non dovrebbe essere concesso di condannare il proprio partito ad una o più legislature in cui altro non può fare che manifestare disappunto nei confronti di chi quella maggioranza l’ha saputa conquistare. Qui sta il punto. Ottenere in Parlamento seggi di minoranza dai quali ci si possa alzare solo per levare la voce contro le scelte operative di chi ha vinto le elezioni, può avere valore di testimonianza ma non è all’altezza dei compiti che dovrebbero essere assegnati ad una forza politica che si considera solo temporaneamente estromessa dall’area di governo. Si tratta di un discorso di sistema, dal momento che tutti gli osservatori concordano sul fatto che uno dei problemi dell’attuale frangente politico consiste nell’assenza di un’opposizione, laddove – per opposizione – non si sta certo parlando di manifestazioni di piazza che pure ci sono e coronate da grande successo, ma della capacità di mettere in campo una forza in grado di scalzare chi oggi è al comando del paese.
La sola gioia restata, attualmente, ai progressisti è quella del giorno delle primarie, partite giocate in casa, all’interno del proprio campo. Giornate all’insegna di un’ampia e rassicurante partecipazione, dove è consentita una qualche vaghezza programmatica (tanto le piattaforme dei candidati sono pressoché identiche) e il vincitore è noto in partenza. È andata sempre (o quasi) in questo modo, compresa l’esperienza ai gazebo del 2017 che — per opinione diffusa all’interno del Pd — annunciava il successo dell’anno successivo, mentre poi il 4 marzo del 2018 … Quando è costretto a misurarsi su scala nazionale con competitori esterni, la difficoltà del Pd di comunicare l’incomunicabile viene fuori con grande evidenza e i risultati, da molti anni, sono inferiori alle aspettative. Che sia giunta l’ora di cambiare passo?