Fonte: La Repubblica
di Daniele Vulpi
L’emergenza sanitaria ha dato una consapevolezza nuova ad aziende e lavoratori: il lavoro agile riguarda ormai in Italia milioni di persone e non più una minoranza. Ma servono nuove regole per non sprecare questa straordinaria opportunità. Sarà una rivoluzione tutta da raccontare
Quindici anni di evangelizzazione informatica del mondo del lavoro hanno prodotto poco in termini di lavoro agile. Alcune aziende, soprattutto quelle capaci di avere una visione, avevano già avviato progetti di smart working, e li hanno realizzati. Attorno ad esse, però, il vuoto. Nel 2017 la politica ha pure partorito una legge ad hoc. Un buon quadro normativo che comunque lascia che a definire le modalità e i dettagli – aspetti molto importanti – sia la contrattazione individuale o sindacale, a seconda della dimensione dell’azienda. E qui non si è fatta molta strada. La sensazione è che il lavoro agile sia stato finora vissuto come un fatto laterale, quasi di nicchia. Non certo un’opportunità da cogliere al volo, per scoprire magari che può darci benefici a cascata. Non certo ultimo quello di rendere meno irrespirabili le nostre città. Del resto la stragrande maggioranza dei dipendenti va ogni giorno in ufficio, a timbrare il cartellino. Dopo essere stati il più delle volte incolonnati in auto nel traffico o stipati nei mezzi pubblici. A coprire distanze, disperdere tempo e inquinare in modo direttamente proporzionale all’estensione degli agglomerati urbani.
Poi è arrivato lo tsunami dell’emergenza Covid che ha cambiato quasi tutto. Assestando uno scossone anche al mondo del lavoro. Non c’è stato il tempo per accendere dibattiti, confronti e scontri nelle consuete sedi politiche. L’unica possibilità per continuare a lavorare, stante la quarantena e il rischio di contagio, in moltissimi casi era agire da casa, attrezzandosi al meglio. Magari con un passaggio ogni tanto in azienda. Una cura shock che sulle prime ha destabilizzato ma poi, pian piano, ha regalato una consapevolezza ai dipendenti e alle aziende: lo smart working – per lavoratori compatibili, naturalmente – si può fare. La sua platea può allargarsi senza provocare scompensi, anzi. E gli esempi virtuosi se ne sono visti sempre di più. Se non si esaurirà presto, questa spinta al cambiamento potrebbe rivoluzionare anche i futuri rapporti di lavoro e persino le grandi città. Per esempio, assumere una persona che vive a centinaia di chilometri dalla sede di lavoro potrebbe diventare la norma. Ma non andiamo troppo avanti.
Questo è stato un cambiamento violento. Ha avuto un suo picco (e ci siamo ancora) e fisiologicamente avrà una sua discesa alla fine dell’emergenza. Si è passati dai 570 mila in lavoro agile prima della pandemia Covid (stime del Politecnico di Milano), agli 8 milioni con il lockdown. Il tutto nel giro di appena qualche settimana. Ma ci sono altri dati interessanti, come quelli di una ricerca della Cgil-Fondazione Di Vittorio: c’è un 94% che si trova d’accordo sul fatto che lo smart working fa risparmiare il tempo perduto ogni giorno sulla direttrice casa-lavoro-casa, che consente più flessibilità, che da la possibilità di lavorare efficacemente per obiettivi e, non ultimo, permette di bilanciare meglio i tempi di lavoro e tempo libero. E c’è un 71% che lavorando a casa soffre nell’avere meno occasioni di confronto e di scambio con i colleghi e, in più, soffre anche l’aumento dei carichi familiari. Di sicuro il 60% continuerebbe, magari con una formula mista. Vedremo.
Questo è il nodo: si tratta di andare verso il nuovo dando al dipendente la possibilità di scegliere. Un’opportunità che si può cogliere, oppure no. Siamo diversi, per fortuna. Ridurre le distanze, dialogare, socializzare è importante per star bene e per stimolare la creatività e produrre idee anche sul lavoro; ma chi ha detto che per alcuni impieghi non ci si possa riuscire anche con una videochiamata? Certo che si può, ma per dare dignità al lavoro agile anche al di fuori dall’emergenza mancano ancora alcuni tasselli. Uno di questi è senz’altro una normativa al passo che non si affanni a inseguire i cambiamenti ma sia in grado una volta tanto di anticiparli. Ovvero: regole chiare per i lavoratori e per le aziende, che portino a contratti dove si dettaglia ogni aspetto di questa nuova modalità: dagli strumenti alla sicurezza delle connessioni al rispetto per la privacy, dagli obblighi alle garanzie, dalla reperibilità al diritto alla disconnessione, evitando tra l’altro che il lavoro da remoto si trasformi in una prigione a cui hanno solo cambiato le pareti. Una sfida che molte aziende dell’hi-tech, dalla stessa Microsoft, a Facebook, a Twitter – anche nel nostro Paese – hanno già raccolto. Probabilmente dopo essersi accorte che la quantità e la qualità del lavoro dei suoi dipendenti non calava affatto da remoto e, cosa non banale, c’era soddisfazione reciproca.
Quanto allora di tutto questo ci resterà alla fine dell’emergenza? Servirà del tempo per capirlo ma davvero viene difficile immaginare che il mondo del lavoro possa richiudersi nel suo passato con la stessa velocità con cui è stato costretto ad aprirsi al futuro. E in queste pagine di “Rivoluzione Smart Working” cercheremo di comprendere proprio la portata della trasformazione in atto raccontando storie di aziende e quindi di persone, di innovazione come di diritti, ascoltando il parere degli esperti. In fondo, questa inattesa rivoluzione è appena cominciata.