Due anni fa l’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Le mosse di Mosca e la posizione del mondo occidentale
Domani saranno due anni dall’inizio della guerra d’Ucraina. Due anni da quella selvaggia aggressione, negata fino a poche ore prima da tutti i simpatizzanti di Putin, che si abbatté fino alla periferia di Kiev con l’esplicito obiettivo di disarcionare Zelensky, se non di toglierlo brutalmente di mezzo. Altro che liberazione del Donbass: una colonna di carri armati si diresse verso la capitale ucraina mentre i militari russi radevano al suolo intere città uccidendo enormi quantità di inermi.
Gli estimatori del capo del Cremlino dissero che le terribili immagini di quelle distruzioni non erano veritiere. Che si trattava di ricostruzioni fatte su set cinematografici. E che gli esseri umani dilaniati sul terreno altro non erano che attori mobilitati per impietosire gli spettatori delle tv occidentali. A Zelensky fu suggerito, perfino dai suoi alleati, di darsela a gambe (finché era in tempo). Ma lui optò per quella che oggi potremmo definire la «scelta di Navalny». Restò lì in piazze deserte ad incitare i suoi alla Resistenza (parola che mai come in quella occasione meritò di essere scritta con l’iniziale maiuscola). E i suoi, sorprendendo il mondo intero, seppero resistere. Misero in salvo le loro famiglie al di là dei confini, quelli che potevano permetterselo e si batterono con inimmaginabile determinazione contro gli invasori.
Morirono a migliaia, a decine di migliaia. In quanto, si disse, «armati dall’Occidente». Ma l’Occidente aveva dato armi e uomini a molti altri popoli in passato e nessuno era riuscito a dar prova di saper resistere come gli ucraini. Che forse per alcuni mesi si illusero (e ci illusero) di poter vincere, cioè, ricacciare i russi al di là dei confini varcati con prepotenza il 24 febbraio del 2022. Poi, nel 2023, è arrivata la «controffensiva di primavera». Un’impresa militare partita in ritardo forse anche perché negli Stati Uniti aveva iniziato a spirare l’ostile vento trumpista e la macchina burocratica europea tardava a fornire, al momento giusto, le armi necessarie. Armi che arrivavano, quando arrivavano, sempre in un tempo successivo rispetto a quello in cui avrebbero potuto essere determinanti. E, nel frattempo, vennero alla luce casi di corruzione, una qualche disaffezione tra i combattenti, dissapori tra generali, addirittura tra il capo di stato maggiore e il capo del governo.
Talché molti domani dovranno prendere atto che il quadro del 24 febbraio 2024 è assai meno confortante di quanto lo fosse un anno fa o due. Così torneranno a farsi sentire i sostenitori della tesi secondo la quale sarebbe stato meglio non combatterla per niente questa guerra, e abbandonare fin dall’inizio l’Ucraina al proprio destino. Che poi la Russia già a fine primavera del ’22 si sarebbe seduta al tavolo della trattativa accontentandosi di qualche non meglio identificata porzione del Nord (o poco più, qualcosetta, una piccola città, una centrale nucleare) e la pace sarebbe tornata sovrana. Avremmo solo dovuto distrarci per qualche giorno.
Un po’ come si era fatto nel 2014 fingendo di non vedere che Putin si era presa la Crimea. Del resto, non sarebbe stata la prima volta nell’ultimo ventennio che al momento in cui Putin «agiva» avevamo guardato altrove. Un po’ come dire che nel 1936 avremmo dovuto agevolare la marcia su Madrid del generalissimo Franco rinunciando a prender parte in alcun modo a quella guerra che sarebbe durata tre anni. Ben consapevoli della possibilità che si sarebbe potuta concludere — anzi, si sarebbe conclusa — con una sconfitta del legittimo potere repubblicano (e per carità nessuno ci venga adesso a spiegare le differenze tra la guerra civile spagnola e quella d’Ucraina: le conosciamo fin troppo bene). Ma ci sono analogie che inducono a qualche riflessione: le esitazioni (allora come oggi) delle potenze democratiche a fronte del dovere morale di offrire sostegno alla resistenza contro l’insubordinazione franchista; la presenza sulla scena di nemici del «bellicismo» che in Francia e Inghilterra esaltarono le virtù del non intervento ed hanno avuto emuli, soprattutto in Italia nell’ultimo biennio; il conforto dei papi — all’epoca Pio XI adesso papa Francesco — a queste manifestazioni non interventiste; la conclusiva definizione di «pace», quando eventualmente sarà, della sostanziale vittoria dell’aggressore. La «pace» spagnola, sia ricordato per inciso, giunse nello stesso 1939 in cui Hitler — reso baldanzoso dalla conferenza di Monaco, da quanto era stato agevole per lui impadronirsi di Austria, Cecoslovacchia e (per interposto dittatore) della Spagna — si accordò con Stalin e diede il via alla Seconda guerra mondiale. Speriamo, nel caso, non si ripeta niente di simile.
Ma torniamo ai tempi nostri: è possibile, a due anni da quel apparentemente lontanissimo 24 febbraio del ’22, che il morale dei combattenti ucraini ceda, che nel Paese prenda il sopravvento lo spirito di divisione caratteristico del decennio passato, che il mondo occidentale si rassegni alla «stanchezza» e che Putin trovi il modo di far fare a Zelensky la stessa fine di Navalny. Del resto in questi giorni la produzione di morti riconducibili al sistema moscovita cresce di giorno in giorno in maniera esponenziale. È possibile perciò che l’evidente campagna in atto per screditare l’uomo di Kiev, si concluda con la sua eliminazione prima e uccisione poi. Ma non è detto. Sia perché Zelensky ha ancora energie e risorse. Sia perché parte consistente del mondo occidentale ancora lo sostiene. Sia perché la misteriosa interconnessione tra guerra d’Ucraina, di Gaza e un’infinità di conflitti minori potrebbe riservare delle sorprese. Sorprese tali da rendere meno statico e prevedibile l’intero quadro di riferimento.