Non c’è nulla di più inedito di ciò che è stato pubblicato e poco letto. Questa celebre frase di Umberto Eco ben si attaglia al tormentato dibattito sulla transizione ecologica e sulle sue conseguenze per la salute del pianeta e, quindi, per la salute degli esseri umani. Perché di tutto si parla (e si sparla) tranne che della fondamentale relazione tra la crisi climatica e la salute dei cittadini che abitano il pianeta minacciato dalle emissioni nocive derivanti proprio dalle loro attività. Perché se ne discute poco? Azzardiamo un’ipotesi: perché ciò significa interrogarci sulle nostre abitudini, in particolare su quelle alimentari, di mobilità, di consumo, a partire dal modo in cui riscaldiamo o raffreddiamo le nostre case. In sostanza sulle nostre vite. E la coscienza ecologica è una voce scomoda proprio perché ha a che fare con la nostra coscienza, cioè con quello che pensiamo e facciamo. Meglio rimuovere la questione e credere che la transizione ad un sistema socioeconomico diverso sia fondamentalmente una questione di grandi scelte, compiute esclusivamente da governi e imprese.
In realtà, noi, che dovremmo essere i primi beneficiari della transizione. Non siamo semplici spettatori, ma attori decisivi del cambiamento. Quando consumiamo, quando produciamo, addirittura quando votiamo. Il sostanziale fallimento della Cop 27 a Sharm El-Sheikh, anche a causa del disimpegno di Russia e Cina, ha diffuso un certo pessimismo sull’incisività delle scelte compiute a livello nazionale o di area geopolitica (tutta l’Unione europea contribuisce per appena il 7% alle emissioni di gas serra). La guerra in Ucraina, la crisi energetica con l’inevitabile rilancio – speriamo solo nel breve periodo – delle fonti fossili, hanno fatto il resto. Ma nel 2023, l’Italia è chiamata – anche per realizzare gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza – a scelte importanti e non più rinviabili.
Tra queste l’aggiornamento del Piano nazionale su energia e clima (Pniec), alla luce delle scelte europee su Green Deal e RePowerUe, con una decisiva accelerazione degli investimenti nelle rinnovabili. L’adozione del Piano per adattamento ai cambiamenti climatici, la cui bozza è stata diffusa per consultazione a fine anno. Ma anche chiamata a dar corpo ulteriore, sul versante della salute pubblica, al Piano nazionale di prevenzione 2020-25.
Il rapporto
Il Consiglio Superiore di Sanità, il cui presidente è Franco Locatelli, ha recentemente pubblicato un rapporto, coordinato da Paolo Vineis, sulla politica dei co-benefici sanitari della mitigazione del cambiamento climatico. La politica dei co-benefici si traduce nell’assunto che si possa, nello stesso tempo, mitigare gli effetti del cambiamento climatico e prevenire alcune malattie con ricadute positive sul Servizio sanitario nazionale e sulla crescita economica del Paese. E se solo vi fosse coscienza di quanto è già stato alto il tributo di vite al riscaldamento climatico, ragioneremmo tutti in maniera diversa. Con una maggiore sensibilità. Tra il 2010 e il 2020 — si legge nel rapporto — si è registrata una media di quasi 100 milioni di giorni-persona in più di esposizione alle ondate di calore rispetto al periodo 1986-2005. Tra il 2 e il 3% dei decessi del 2015 era attribuibile ai picchi di caldo torrido. L’Italia è al secondo posto, nell’Unione europea, nella classifica delle morti premature per cause legate all’inquinamento (circa 70.000, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente). Inoltre, le alterazioni climatiche accelerano la trasmissione delle malattie infettive: ad esempio, i casi di dengue, trasmessa dalle zanzare sono raddoppiati in un decennio. Insomma, investire nella lotta alla crisi climatica vuol dire non solo migliorare l’ambiente, ma anche migliorare la prevenzione malattie e sgravare di oneri il sistema sanitario. Il rapporto calcola che una riduzione fino al 30/40% dell’incidenza delle cronicità (tumori, diabete, malattie cardiovascolari, respiratorie e neurologiche) può essere ottenuta attraverso un serio programma per ripulire l’aria delle città, favorendo la mobilità attiva (il trasporto su strada è responsabile del 25 per cento delle emissioni di CO2 in Italia nel 2019) e migliorando la dieta degli italiani. Il tutto senza farmaci, terapie e ricoveri. Forse a livello di opinione pubblica non vi è la piena consapevolezza di quanto sia importante — per la salute e l’ambiente — un insieme di buone abitudini, individuali e collettive.
Cambiare strada
E l’Italia ha tutte le capacità di cambiare strada, come dimostrano i primati già raggiunti nell’economia circolare, e le virtù delle sue comunità, mostrate anche durante la pandemia. Peraltro, l’opportunità economica della transizione, anche grazie ai fondi europei, è straordinaria perché significa nuove imprese, più investimenti e occupazione, capaci di più che controbilanciare la chiusura di alcune industrie inquinanti e a forti emissioni di gas climalteranti. Uno degli impegni decisivi per favorire il cambiamento ha a che fare con la «coerenza delle politiche», come chiaramente indicato dall’Onu e dall’Ocse, capace di generare rilevanti co-benefici. E su questo c’è ancora molta strada da fare. Ad esempio, nell’indicare gli obiettivi della decarbonizzazione (zero emissioni nette al 2050) sia il piano europeo Fit for 55, sia le linee guida dell’Agenzia internazionale per l’energia non parlano della salute. Secondo uno studio inglese, realizzato sui dati di nove Paesi industrializzati, tra cui l’Italia, il rispetto dei traguardi di decarbonizzazione, con la diminuzione dell’inquinamento, ridurrebbe la mortalità di 1,18 milioni persone entro il 2040, ma ancora di più la contrarrebbero gli interventi sulla produzione di cibo (5,86 milioni) e l’incremento dell’attività fisica (1,15 milioni). Nello scenario che contempla anche interventi per mitigare il cambiamento climatico e prevenire le malattie, ovvero la politica di co-benefici, vi sarebbe un’ulteriore diminuzione della mortalità di 462 mila persone per fattori legati all’inquinamento, 572 mila per questioni legate all’alimentazione e 943 mila grazie a una vita più attiva.
Abitudini e numeri
Gran parte delle emissioni è dovuta al consumo di prodotti animali, che costituisce l’82% (dato 2018) di quelle dell’agricoltura, diminuite comunque del 27 per cento rispetto all’inizio del secolo. Il sistema del cibo in generale contribuisce al totale delle emissioni di gas serra, a seconda delle stime, per un valore compreso tra il 21 e il 37%. L’Italia è il secondo Paese dopo la Germania, sempre nel 2018, per mortalità attribuibile a un eccesso di consumo di carne rossa (stima Lancet Countdown). Nell’ipotesi — sideralmente remota — che tutti adottassero la dieta suggerita dall’Organizzazione mondiale della sanità (2100 calorie al giorno di cui 160 dalla carne) si avrebbe un risparmio di 15 Giga tonnellate di CO2 equivalenti all’anno. Si libererebbero, di conseguenza, spazi per piantare più alberi consentendo un maggior ricorso all’energia da biomasse: per avere un riferimento noto, un campo di calcio può essere utilizzato per produrre 250 chilogrammi di carne o, in alternativa, mille di pollame o, ancora, 15 mila di frutta e verdura. Ovviamente qui siamo nell’ambito degli scenari più immaginifici e virtuosi.
Comportamenti e sensibilità
Nessuno pensa di imporre delle diete. Per carità. Ma contribuire a far crescere una maggiore sensibilità sull’impatto ambientale delle nostre scelte a tavola, come di quelle nella mobilità sostenibile, è assolutamente doveroso sul piano dell’educazione civica, magari dando piena attuazione a quanto prevede la legge del 2019. Anche perché il rapporto del Consiglio Superiore di Sanità dimostra che la politica di co-benefici, accanto agli investimenti nelle rinnovabili, può dare un’accelerazione decisiva al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione. In Italia, infatti, l’intensità di carbonio si è ridotta, nel 2019, del 25 per cento rispetto al 1970, ma di questo passo – come nota il rapporto – occorrerebbero 79 anni per la decarbonizzazione, cioè quasi 50 in più rispetto all’obiettivo (2050) sul quale ci siamo impegnati come Italia e come Unione europea. Senza sminuire l’importanza fondamentale delle politiche e dei comportamenti delle imprese, anche a noi è richiesto di fare decisamente meglio. Con benefici tangibili sull’ambiente, la salute, l’economia e la convivenza civile. Una piccola-grande battaglia da assumere come impegno per il nostro 2023, anche per non lasciare solo i giovani a lottare per la transizione ecologica, di cui tutti saremmo beneficiari. Coraggio.