Fonte: La Stampa
di Francesco Olivo
Senza un’intesa a sinistra si rischia di tornare alle urne a novembre. Il politologo Simón: “Il Paese è cambiato troppo rapidamente”
La Spagna resta bloccata, i socialisti hanno vinto chiaramente le elezioni dello scorso aprile, ma per formare un governo devono stringere un accordo con Podemos (e con altri partiti territoriali) e qui sorge il problema. Gli ex indignados vogliono entrare nell’esecutivo, mentre il premier in carica Pedro Sánchez chiede una collaborazione senza ministri, o meglio senza ministri di peso. I negoziati si sono arenati su questo punto, praticamente ancora prima di partire. La scadenza si avvicina, tra il 22 e il 25 luglio Sánchez dovrà comparire in parlamento alla ricerca di una maggioranza che lo sostenga o che per lo meno gli dia il via libera. “Con Podemos il negoziato è morto”, ha detto ieri il leader socialista, offeso per la decisione di Pablo Iglesias di consultare la base, «con un quesito falso, che non tiene conto delle nostre offerte». La destra esclude qualsiasi collaborazione, fosse anche soltanto un’astensione tecnica per far governare i socialisti, così la sinistra è condannata a trovare un’intesa. L’alternativa infatti, è un rischio per tutti: nuove elezioni il prossimo 10 novembre. Non sarebbe la prima volta, è già successo tre anni fa e queste trattative estenuanti si ripetono, spesso senza successo, in molte comunità autonome. La Spagna, insomma, non sembra adattarsi alla fine del bipolarismo. «Ma non è un problema culturale», afferma con nettezza Pabo Simón, politologo dell’Università Carlo III di Madrid e autore di fortunati saggi sull’attualità politica.
Professor Simón, la rottura tra socialisti e Podemos è definitiva?
«Credo di no. Sanchez vuole mettere pressione a Podemos, affinché desista dalla richiesta del governo di coalizione. Un modo per dire a Pablo Iglesias “Fai qualcosa altrimenti precipita tutto”. Insomma, siamo ancora di fatto dentro alla trattativa».
Cosa potrebbe fare Podemos per favorire il ritorno al tavolo dei negoziati del Psoe?
«Un gesto di buona volontà sarebbe sospendere il referendum tra gli iscritti, ma non mi pare sia possibile adesso. Più che altro forse si può cercare di orientare questa consultazione con dichiarazione distensive».
Qual è lo scoglio maggiore che impedisce l’accordo tra i due partiti?
«La mancanza di fiducia reciproca. Va ristabilita subito, altrimenti è complicato non solo nelle trattative, ma anche in un ipotetico governo».
Non è la prima volta che ci troviamo davanti a questa situazione, se si tornasse a votare sarebbe la quarta volta in quattro anni: lei crede che la Spagna abbia una problema di cultura politica?
«Assolutamente no, non si tratta di questo. Ci sono dei problemi strutturali, istituzionali, ma non di cultura politica. Siamo davanti al parlamento più frammentato di sempre e questo pone delle difficoltà nuove, visto che la Spagna ha lo stesso sistema istituzionale da oltre quarant’anni. I partiti inoltre non sono così monolitici come un tempo».
Questo scenario di frammentazione è già presente praticamente ovunque in Europa.
«Certo, ma la differenza è che la Spagna si è frammentata molto più rapidamente. Il sistema multipartitico non si sta stabilizzando. Diciamo che ci siamo “europeizzati” in 5 anni e l’instabilità di questi mesi è un risultato di questo cambiamento rapido».
Sánchez potrebbe guardare a destra?
«La cosa più logica potrebbe sembrare un governo Psoe-Ciudadanos, che non richiederebbe nessun altro appoggio. Questo scenario però è reso impossibile dalla logica di blocco destra/sinistra: Ciudadanos ha scelto di stare a destra e non collabora con Sánchez».