19 Settembre 2024

Trattenuto per 18 mesi solo chi è già espulso, se fa resistenza o se il suo Paese non collabora: la strategia del governo già parte in salita

Procedure di somma urgenza per opere di sicurezza nazionale, quei Centri per il rimpatrio che, nel giro di pochi mesi, dovrebbero essere aperti non si sa neanche con quanti posti nè in quali luoghi. Intanto nei pochi che lo chiedono. «Cominciamo da Ventimiglia. Sappiamo che resistenze ci saranno, dialogheremo con tutti cercando di imporre la nostra linea», dice il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che non ha «pregiudizi» neanche sull’idea di collocare i centri su isole deserte. Ma quali?

Costi lievitati e liberi tutti
Una spesa che potrebbe arrivare fino a 100 milioni di euro per rinchiudere in detenzione amministrativa alcune migliaia di persone che, nella metà dei casi, finirà poi , dopo 18 mesi, per essere lasciata libera di andarsene dove gli pare. Questo è successo finora e questo continuerà ad accadere fino a quando l’Italia non avrà firmato accordi di riammissione con i Paesi d’origine dei migranti.

18 mesi ma non per tutti
Tanto rumore per nulla visto che – oltre a ribadire che il prolungamento della detenzione riguarda solo gli stranieri già destinatari di un decreto di espulsione, quasi tutti con precedenti penali, e non i richiedenti asilo, le nuove norme precisano che neanche il trattenimento per 18 mesi è per tutti, ma solo per chi si opporrà all’espulsione, ad esempio con un ricorso, o nel caso in cui i Paesi d’origine ritardino le procedure.

Gli accordi impossibili
È il vulnus dei vulnus. Senza accordi di riammissione nessun migrante può essere rimandato in patria. L’Italia di accordi bilaterali ne ha pochissimi, con Tunisia, Albania, Egitto, Marocco e Nigeria ma l’unico realmente attivo è quello con la Tunisia. Sette migranti su dieci rimpatriati nel 2022 sono tunisini, meno di 2.000 persone. In Egitto, in tre anni, l’Italia è riuscita a rispedire appena 300 persone, poche decine in Marocco e in Nigeria. Con Gambia, Costa d’avorio e Senegal ci sono intese di polizia non sufficienti a rimpatriare migranti se non con il loro assenso. E, dunque, l’anno scorso a fronte di 28.000 decreti di espulsione, le persone transitate nei Cpr sono state solo 6.400 e di queste ne sono poi state effettivamente rimpatriate 2900.

Il mistero dei nuovi posti
Di quanto il governo ritiene di poter incrementare il numero dei rimpatri realizzando nuovi Cpr? Nel decreto non si fa alcun cenno al numero. Al momento nei 9 aperti ce ne sono agibili 619, con 12 nuovi centri nelle regioni al momento senza, la capienza potrebbe aggirarsi intorno ai 2.000 posti, Con un turn over assai limitato visto l’innalzamento dei tempi di detenzione da 3 a 18 mesi.

L’inevitabile liberi tutti
Cosa succederà poi a quelli che non verranno rimpatriati? Esattamente quello che succede oggi: il rilascio con un foglio di via che nessuno rispetta. È quello che, ad esempio, certamente capiterà a migranti provenienti dalla Guinea, prima nazionalità tra gli sbarcati quest’anno, Paese con cui l’Italia non ha patti di riammissione.

Costi umani e sociali
C’è poi il non certo trascurabile risvolto umanitario di una così lunga detenzione amministrativa in strutture teatro di risse, violenze, dove l’uso massiccio di psicofarmaci è molto diffuso. E anche del costo di questa detenzione: circa 50 euro al giorno a persona ( contro i 35 dei centri di accoglienza) che fanno 30.000 euro per 18 mesi.

Chi dovrebbe vigilare?
E poi c’è il classico conto senza l’oste. Con quali uomini e mezzi il governo intende assicurare il controllo e la sicurezza nei Cpr? «La sorveglianza non compete a noi, ma alle forze dell’ordine», sottolinea il ministro della Difesa Crosetto. E i sindacati di polizia insorgono: «Per gestire un Cpr di 150-200 persone – fa il conti il Silp Cgil – occorrono 100 unità al giorno. Dove li prendiamo? Con organici così in sofferenza saranno tolti al controllo delle città?».

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