22 Novembre 2024

Non affrontiamo più problemi, ma solo emergenze. Col risultato di prendere decisioni non sulla base di analisi ponderate, ma di emozioni

A partire dal Covid, ci siamo abituati a non ragionare più di «problemi» ma di «emergenze». La differenza è che i primi si valutano, si soppesano, si studiano, alla ricerca di soluzioni i cui costi siano coerenti con i benefici attesi. Le emergenze esigono azioni rapide e risolutive. Nella nostra società, questo significa immancabilmente l’intervento dello Stato, accorciando quanto più possibile la catena di comando, per ridurre i tempi di cui ha bisogno, per esempio, un’idea innovativa per trovare chi la finanzi sul mercato.
È una specie di millenarismo economico: l’ansia della fine del mondo alimenta il bisogno di mettersi in moto, di fare qualcosa. Chi vuole mettere in campo investimenti pubblici contro le nuove «emergenze» ritiene che il loro essere «pubblici» sia una garanzia di successo. Verranno indirizzati in un’unica direzione, da una singola regia, mentre il privato spreca tempo e risorse facendosi concorrenza. La coerenza nei progetti di spesa giustifica la mole degli investimenti e la fiducia nella loro efficacia esorta a ricorrere a debito ulteriore per finanziarli, anziché provare a rimodulare la spesa esistente. Chi pensa che aumentare sensibilmente il debito pubblico sia poca cosa rispetto a salvare il clima, deve credere che le nuove spese siano tanto urgenti quanto risolutive. A meno che non sia millenarista fino in fondo, e non desideri altro che un immenso rituale per propiziarsi il paradiso.
Non si tratta di discussioni accademiche. Questo millenarismo economico ha ispirato le politiche della prima commissione von der Leyen. In questi giorni, la seconda deve scegliere se proseguire sulla stessa strada. Se guardassimo non a ipotetiche spese future, ma alla spesa pubblica degli Stati membri, ritroveremmo qualche ragione di cautela. I Paesi nei quali il debito pubblico è superiore al valore del Prodotto interno lordo, nel vecchio continente, sono solo cinque: Grecia, Italia, Francia, Spagna e Belgio. C’è poi una nutrita compagine di Stati il cui debito è compreso fra il 60 e l’80% del Pil (fra cui Austria e Germania) e ce ne sono altri che hanno addirittura un debito che pesa meno della metà del PIL: non solo Bulgaria ed Estonia, ma anche Svezia e Danimarca.
È difficile sostenere che i grandi debitori abbiano infrastrutture o servizi di qualità superiore ai piccoli debitori: non sembra che svedesi e danesi siano molto ansiosi di «fare gli italiani».
La mole del debito riflette il modo in cui si è scelto di finanziare la spesa pubblica, non il suo livello. Che in Europa è relativamente più omogeneo, su valori fra il 40% e il 50% del Pil, con poche «fughe in avanti» (Francia, Italia, Austria, Finlandia, Belgio) e alcune sorprendenti eccezioni, l’Irlanda dove la spesa pubblica è poco più del 20% del Pil o i Paesi Bassi, avanguardia del welfare, dove lo Stato spende il 43% del prodotto. Anche la spesa non solo è più o meno sostenibile a seconda del livello di sviluppo, ma è più o meno efficace a seconda dei Paesi. A causa di fattori diversi: le regole che governano i meccanismi di allocazione delle risorse, la cultura delle amministrazioni, sistemi politici che mettano l’elettore in condizione di valutare quel che fa il politico ovvero di farsi «comprare» con le spese giuste. Fuori dall’Unione europea, gli svizzeri hanno una spesa pubblica attorno a un terzo del prodotto: le loro strade, le loro ferrovie, le loro università sono peggiori delle nostre?
Il millenarismo economico non è solo europeo. Negli Stati Uniti, Trump e Harris profetizzano la fine del mondo in caso l’avversario vincesse e applicasse le sue ricette economiche. L’epoca della polarizzazione politica rifiuta le noiose analisi costi benefici. Non è però solo una malattia della democrazia, se gli organi «tecnici» ragionano allo stesso modo. È umano che per fronteggiare un’emergenza si voglia fare qualcosa. Lo è troppo imbarcarsi in spese senza precedenti, che metteranno una pesante ipoteca sulle nuove generazioni, sulla spinta di un’emozione.

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