di Enzo Moavero Milanesi
Ue e Regno Unito dovrebbero cercare subito un’intesa sui punti chiave. La strada preferibile è legata allo Spazio economico europeo, evitando senza accordi speciali
In Europa, il referendum in Gran Bretagna, favorevole all’uscita dall’Unione europea, ha aperto una fase inedita, pervasa d’incognite. La nomina di Theresa May a primo ministro, rappresenta un punto di svolta, dopo la sconcertante catena di dimissioni fra i leader politici locali. Con una lapidaria dichiarazione, ha chiarito che «Brexit significa Brexit» e che è sua intenzione farne «un successo». Ora, dovrà notificare al Consiglio europeo l’intenzione del suo Paese di recedere dall’Unione e iniziare i negoziati, disciplinati dall’articolo 50 del Trattato Ue. Questo sembra porre fine alle fantasticherie su possibili ripensamenti, ma il percorso resta complesso. Lo scenario è molto fluido e non giova, né alla stabilità economica e finanziaria, né alla chiarezza del quadro politico europeo. Considerata la delicatissima fase che attraversano l’Unione e i suoi Stati membri, con l’imperativo di riconquistare la fiducia dei cittadini, una prolungata incertezza è insidiosa. Nel reciproco interesse, Ue e Gran Bretagna dovrebbero ricercare subito un’intesa sui punti chiave, renderla pubblica per poi puntare ad accordarsi sui dettagli nel giro dei due anni, teoricamente previsti dalle disposizioni europee. Ma, alla luce di quanto si sente e si legge, non è evidente che ciò accada; specie se le controparti negoziali si arroccheranno a difesa dei propri interessi, con il dirompente fattore dei 27 interessi nazionali che convivono nell’Unione. L’articolo 50 Ue, mai applicato prima, lascia margini interpretativi ampi. Per esempio, se allo scadere del biennio di trattative, non fosse raggiunto un risultato, è possibile, sia prorogare il termine per continuare a discutere, sia cessare — sic et simpliciter — di applicare i trattati Ue allo Stato che ha chiesto di uscire dall’Unione; inoltre, la norma non esclude che detto Stato possa capovolgere la sua iniziale opzione e non recedere più. Inverosimile? Non proprio: poiché il referendum britannico ha valore consultativo, l’ipotesi potrebbe realizzarsi se, durante i negoziati, ci fossero nuove elezioni e venissero eletti un Parlamento e un governo pro Europa. In questa prospettiva, aiuterebbe lavorare su tempi elastici, con versatile duttilità politica da entrambe le parti. Tuttavia, è destabilizzante restare nel vago circa la sorte dell’enorme mole di regole, prassi consolidate, politiche pubbliche, poste di bilancio, accumulatesi durante gli oltre 40 anni di presenza della Gran Bretagna in seno alla Comunità e all’Unione. Sarebbe importante circoscrivere le variabili. L’articolo 50 Ue offre una pista, perché dà al Consiglio europeo il nodale compito di formulare le linee guida della posizione dell’Unione. Se vuole, il Parlamento europeo ha l’opportunità di stimolarlo; e un analogo ruolo spetta ai Parlamenti nazionali, nei confronti dei vertici dei rispettivi governi. Penso, sia essenziale che il Consiglio europeo si esprima in maniera univoca; in particolare, rispetto all’esito finale. Le opzioni, al riguardo, sono tre: l’accordo speciale ad hoc; la scelta di uno schema di accordo già esistente; il mancato accordo. Poiché, la terza va scongiurata, la vera scelta è fra le altre due. La prima, all’insegna della flessibilità, consente di confezionare una sorta di abito su misura; inutile nascondersi che i dibattiti sarebbero estenuanti e che si stabilirebbe un aleatorio precedente per ogni Stato che intenda lasciare l’Ue. Di conseguenza, dal punto di vista dell’Unione, mi sembra nettamente preferibile la seconda opzione che focalizzerei sul vigente trattato istitutivo dello «Spazio economico europeo» (See). Come ho già segnalato su queste pagine, lo See garantisce un contesto di mercato senza barriere in cui merci, servizi, capitali (quindi, investimenti) e lavoratori circolano liberamente e lega i paesi Ue a quelli Efta («Associazione europea di libero scambio»); poiché recepisce oltre l’80% della legislazione Ue, semplifica enormemente il cambio di status della Gran Bretagna. Naturalmente, non stupirebbe se quest’ultima mirasse, invece, all’accordo speciale. Infatti, i meccanismi See impongono le normative Ue e per un ex membro dell’Unione è amaro diventare destinatario passivo di regole che, prima, condizionava durante l’iter di adozione; inoltre, c’è il nodo della circolazione dei lavoratori, così influente sul voto referendario.
Tuttavia, una scelta in tal senso da parte del Consiglio europeo, sarebbe ineccepibile e coerente. Il messaggio risulterebbe chiaro, anche — e soprattutto — per il futuro: un Paese che esce dall’Ue, può unicamente accedere (via l’Efta) allo «Spazio economico europeo» e fruire di un unico mercato con gli ex partner. L’esclusività dell’opzione presenta svariati vantaggi: tutela al meglio le prerogative dell’Unione; consente di preservare parecchio di ciò che si condivide in ambito Ue, riducendo i traumi economici del divorzio; non discrimina lo Stato in questione, perché propone uno schema associativo collaudato — positivamente — dal 1994; con l’arrivo della Gran Bretagna, lo See acquisirebbe una dimensione nuova, tale da rilanciarlo come ambito di libero scambio, rafforzato e ben strutturato, in cui possono confluire anche quei Paesi per i quali è più problematica una piena adesione all’Unione.