22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

La svolta tedesca prepara il rilancio dell’Unione. Il nostro Paese, quindi, dovrebbe disegnare scenari futuri, non battere la grancassa per distruggere quelli passati, in un momento di crescita economica


Mentre la svolta politica tedesca prepara il rilancio dell’Europa, un quesito che ci riguarda percorre le cancellerie della Ue: cosa dice, cosa fa l’Italia? Noi lo sappiamo bene, e lo sanno anche gli ambasciatori dei Paesi europei che ogni giorno hanno il tormento di dover riferire alle loro capitali: l’Italia è impegnata in un viaggio della fantasia chiamato campagna elettorale, nel quale ad ogni tappa questo o quel protagonista costruisce il suo Palazzo Potemkin (dal nome del principe russo che per allietare la zarina Caterina II le faceva trovare lungo il cammino edifici dotati soltanto della facciata).
Cosa vede, infatti, chi dal resto dell’Europa prova a captare i complessi segnali italiani? Vede che il Movimento 5 Stelle, primo partito italiano secondo i sondaggi, propone di cancellare la legge Fornero sulle pensioni (costo minimo per l’erario 25 miliardi l’anno). E che il candidato premier Luigi Di Maio afferma di voler tagliare il debito pubblico italiano del 40 per cento in otto anni, traguardo che Francesco Giavazzi e Alberto Alesina su queste colonne hanno assimilato alle favole. Vede altresì che la Lega condivide la cancellazione totale della Fornero e che Forza Italia, sua partner di coalizione, pare orientata ad associarsi dopo aver inizialmente sostenuto una parziale correzione della legge. Vede che il Partito democratico lancia l’abolizione del canone tv senza preoccuparsi del futuro dell’informazione televisiva pubblica e del suo impatto culturale. Vede che in questo campo Liberi e Uguali è andato oltre, sposando l’eliminazione delle tasse universitarie senza pensare al finanziamento degli atenei e alla qualità dello studio che deve andare di pari passo con l’auspicato aumento dell’occupazione.
Questi sono i biglietti da visita che l’Italia sta distribuendo in Europa con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale del 4 marzo. Sarebbero davvero ingiusti o prevenuti, i nostri soci dell’Unione e dell’Eurogruppo, se scorgessero in questa giostra di propaganda e di provincialismo l’emergere di un populismo collettivo, meno aggressivo nella forma ma di certo più esteso di quelli che hanno scosso una dopo l’altra l’Olanda, la Francia, la Germania, persino l’Austria?
Eppure esistono ragioni molto serie e molto concrete che dovrebbero indurre la nostra politica, tutta la nostra politica, a disegnare scenari futuri invece di limitarsi a battere la grancassa per distruggere quelli passati, oltretutto in un momento di crescita economica.
Se il congresso della Spd non silurerà domenica l’accordo raggiunto tra Angela Merkel e Martin Schultz, la Germania avrà presto un nuovo governo fortemente europeista. L’asse franco-tedesco rinascerà più forte di prima, anche se a Berlino nessun politico, nemmeno Schultz, può permettersi di venir meno alle regole collettive per una severa gestione finanziaria. Oppure immaginare che l’Europa diventi quella tanto paventata «transfer union» che porterebbe la Germania a dover garantire per i debiti degli altri. La discussione con Macron sulle riforme da introdurre nell’Eurogruppo non sarà una passeggiata, ma produrrà comunque, per reciproco interesse, una maggiore integrazione europea accanto alle «diverse velocità» sancite lo scorso marzo a Roma. E per chiarire a tutti quale vento tiri, lunedì prossimo i Parlamenti tedesco e francese voteranno una risoluzione volta a creare un inedito «spazio economico franco-tedesco».
L’Europa, insomma, si appresta a rimettersi in moto dopo una lunga stasi. L’Italia è pronta a fare la sua parte? Oggi no, per ragioni diverse. Per l’andamento di una campagna elettorale che va corretta in fretta, come abbiamo visto. Ma anche perché una vicinanza franco-tedesca troppo marcata non ha mai fatto piacere alla nostra diplomazia e alla nostra politica, come se esistessero spinte alternative capaci di far progredire il progetto europeo. Certo, al cospetto del duo trainante noi dobbiamo avere il peso necessario per difendere i nostri interessi, più che mai in un periodo di riforme. E possiamo legittimamente aspirare a far parte del «nocciolo duro» dell’Unione, senza pretendere di farlo in sostituzione di qualcun altro (la Francia, di solito). Ma i galloni si meritano, nelle proposte, nelle iniziative, nei numeri (ancora brutti) dell’economia, nella credibilità politica. Emmanuel Macron è venuto a proporci un Trattato del Quirinale tra Italia e Francia, ma non farà mai passare in secondo piano il Trattato dell’Eliseo tra Francia e Germania. Semmai, Parigi vuole incoraggiare una riscossa europeista della nostra politica interna. E vuole acquisire un maggior potere contrattuale verso Berlino, essendo le istanze francesi e quelle italiane assai simili su punti qualificanti.
I giochi europei ricominciano, è normale. E l’Italia deve evitare di scoprirsi domani fuori dai giochi. Deve evitare che una campagna elettorale autolesionista faccia dimenticare quanto è stato fatto sui migranti. Deve riaffermare la sua dignità europea di Paese fondatore, ora che questa qualifica riprende quota in tempi di Brexit, di legittime divergenze transatlantiche e ancor più di lontananza del gruppo orientale di Visegrad. L’Europa sta già cambiando, mentre i nostri comizi guardano indietro.

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