4 Dicembre 2024

Due proposte di norme stanno andando avanti in Parlamento. Esse regolano il potere dello Stato nei confronti della galassia semipubblica e privata che lo circonda e l’opera della Corte dei conti. Entrambe le proposte sono giuste nelle finalità, ma sbagliate nei mezzi

Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica è concentrata sui conflitti interni alla maggioranza e all’opposizione, che cosa succede nelle stanze del potere? Due proposte di norme, che debbono essere ambedue approvate, per motivi diversi, entro la fine dell’anno, stanno andando avanti in Parlamento. Esse regolano il potere dello Stato nei confronti della galassia semipubblica e privata che lo circonda e l’opera della Corte dei conti. Entrambe le proposte sono giuste nelle finalità, ma sbagliate nei mezzi.
La prima è contenuta nella legge di bilancio per il 2025 e prevede la presenza di un rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze nei collegi dei revisori e dei sindaci di società, enti, organismi e fondazioni che ricevono, anche in modo indiretto, e sotto qualsiasi forma, contributi significativi a carico dello Stato.
Essa prevede altresì un contenimento della spesa e limiti ai compensi degli amministratori di organismi para-pubblici.
È giusto controllare l’uso che soggetti terzi fanno delle risorse pubbliche; ma non si poteva fare diversamente? Una norma di questo tipo, sproporzionata ed intrusiva, finisce per cambiare i rapporti tra Stato ed economia, per essere un’invasione nell’autonomia di organismi privati, inapplicabile nei casi in cui vi sia un sindaco unico o una società esterna di revisione.
Inoltre, crea una zona grigia tra responsabilità civilistica e responsabilità contabile, aggiunge altre funzioni alle molte che sono proprie del collegio sindacale, fa sorgere problemi per la Ragioneria generale dello Stato, costretta ad impegnare molte persone per svolgere questo compito. Ci si può chiedere se, piuttosto che istituire questa larga rete di rapporti, non si potrebbero imporre agli organismi finanziati obblighi di rendicontazione al Ministero dell’economia e delle finanze e al Parlamento.
La seconda proposta, presentata dal capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, che va approvata entro dicembre, quando scade l’attuale «scudo erariale» per i dipendenti pubblici, appresta una difesa per la sempre bistrattata burocrazia, prevedendo un tetto alle condanne irrogate dalla Corte dei conti, una esclusione della responsabilità per colpa grave per i fatti derivanti da atti sottoposti al controllo preventivo di legittimità, un limite alla responsabilità, un obbligo e un incentivo ad assicurarsi contro il rischio di danno erariale per i dipendenti pubblici. Inoltre, è disposto il risarcimento delle spese per chi viene assolto, ed ampliato l’ambito del controllo preventivo di legittimità sugli enti territoriali.
Ma la proposta, anche se introdotta per una finalità giusta, consiste di rimedi e scappatoie, dilatando la funzione consultivo-preventiva per fare da scudo nei casi di colpa grave, ed escludendola per gli atti conformi a pareri della Corte dei conti; fa diventare la Corte stessa un consulente dell’amministrazione, un controllore a richiesta del controllato, come è già successo in passato, con la conseguenza di aumentare i controlli preventivi, che riescono a vedere le pagliuzze, ma non le travi, e di allungare i tempi delle procedure. La proposta ha suscitato reazioni ufficiali e ufficiose della Corte dei conti. Questa ha richiesto un «confronto» e un «percorso condiviso» con il governo, minacciando uno «stato di agitazione». Ma la Corte è una parte dello Stato, non un sindacato.
Purtroppo, la Corte dei conti intende il suo compito principalmente quale giudice della responsabilità erariale. Non si rende conto della sua scarsa efficacia sul lato risarcitorio: 14 mila giudizi negli ultimi 5 anni, ma solo il 10 per cento incassato, con l’effetto, però, di spaventare chi deve decidere e di rallentare tutta l’azione amministrativa (Andreotti diceva che, se la Corte dei conti gli chiedeva un risarcimento di un miliardo non si preoccupava, mentre temeva se gli chiedeva mille euro). Non è con la «funzione deterrente» della Corte dei conti e delle sue procure, che scimmiottano quelle penali, che si fa operare meglio la pubblica amministrazione, né con i controlli preventivi di legittimità, disposti dalla Costituzione esclusivamente per gli «atti del Governo», non per tutti gli atti amministrativi (Massimo Severo Giannini, richiamando l’attenzione, nel 1979, sulla Commissione Hoover americana, che ha operato nel 1947-49 e poi nel 1953-55, scriveva che i controlli formali sono «poco più di una burla» e conviene abbandonarli), come pure i «controlli concomitanti», che sono una forma di cogestione.
Occorrerebbe, viceversa, sviluppare il compito principale della Corte, quello di occhio del Parlamento, mediante il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Un compito questo richiesto dalla Costituzione ed essenziale, al quale purtroppo la Corte è impreparata, perché, composta solo da fini giuristi e cultori del «combinato disposto», attaccati al ruolo di magistrati. Con questa configurazione, la Corte non è in grado di fare analisi economiche e di valutare i risultati dell’azione amministrativa.
Sarebbe ora — come ha osservato Ernesto Galli della Loggia nel magistrale articolo scritto su questo giornale il 28 novembre scorso — che la classe politica mutasse il suo modo di intendere la politica e il relativo dibattito pubblico e che l’opinione pubblica, invece di farsi distrarre dalle quotidiane battaglie di posizione all’interno dei partiti e tra i partiti, prestasse maggiore attenzione a ciò che avviene sotto traccia, negli strati profondi del potere, dove si decidono le sorti future dello Stato, e cioè di tutti noi.

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