Dal matrimonio con Peugeot alla delocalizzazione: le scelte e le conseguenze
La crisi Stellantis evidenziata dalle dimissioni del suo numero uno Carlos Tavares avrà molte conseguenze. Per affrontarle va evitato però un rischio: pensare che si tratti di una situazione comune all’intero settore automobilistico. È vero, ma solo in parte. Vero per le drammatiche evoluzioni che potrà avere, che ci riguardano e ci riguarderanno tutti. In termini sociali, di occupazione, di mancata ricchezza creata e per questo di potenziali nubi che si addensano sull’orizzonte europeo e nazionale.
Ma c’è un caso nel caso che si chiama Stellantis.
Partiamo dall’Europa. L’industria automobilistica ha fatto grande il Vecchio Continente. Mai dimenticarlo. Solo lo scorso anno ha contribuito per almeno 460 miliardi al prodotto interno lordo.
Il trenta per cento della spesa in ricerca e sviluppo è legata all’auto. Gli occupati tra diretti e indiretti sono circa 13 milioni.Gli scossoni che un incerto futuro dell’industria può provocare non sono prevedibili. Il passaggio è epocale.
Discende da quei mutamenti di mercato, dalle transizioni digitale e ambientale, dalle discontinuità tecnologiche che hanno velocità imprevedibili e che stanno mettendo a dura prova tutte le maggiori case. C’è da chiedersi però se non siano le conseguenze di una sottovalutazione di quel piccolo quanto penetrante segnale d’allarme che fu lo scandalo del Diesel gate nel 2015.
Quasi incuranti di quello che veniva considerato un incidente di percorso, si è pensato che il motore a combustione potesse dettare le regole ancora per molto tempo. Al punto di credere che bastasse posticipare quel termine ultimo indicato dall’Europa nel 2035, anno nel quale i propulsori termici dovevano cessare di essere venduti, per pensare di andare avanti «business as usual».
Eppure, c’era l’esempio di una Tesla. Alla società americana i mercati davano valore quanto tutte le maggiori case automobilistiche al mondo. Non certo, o meglio, non solo per i motori elettrici che le spingevano. Non si trattava di sostituire un propulsore con un altro di diverso tipo. E non necessariamente elettrico. Ma anche avere a bordo tecnologie, modalità di utilizzo diverse. Come dimostra l’accelerazione del noleggio.
Tutto questo significava per i protagonisti delle 4 ruote dover eccellere non solo nella bellezza e efficienza dei veicoli, qualità date per scontate dai consumatori. Si doveva e si deve eccellere nel software, nei servizi, nella mobilità, in nuovi materiali, in quelle batterie diventate improvvisamente il cuore delle vetture. E di cui la Cina, per inciso, controlla il 75% della produzione mondiale.
Le due transizioni, digitale ed ecologica, sono state vissute come un’accelerazione di quello che la tecnologia, nel primo caso, aveva sempre permesso: tagliare i costi e aumentare la produttività. L’ambiente non era una scommessa sul futuro da affrontare cambiando passo sull’innovazione ma uno dei tanti problemi da risolvere in azienda. Ignorate le nuove generazioni che sembrano non considerare più l’acquisto di un’auto come il passaggio all’età adulta.
E così quando il mercato inizia a cambiare, il settore sembra impreparato. La capacità produttiva europea indicata in circa 21 milioni di veicoli tocca il punto più basso a 12 milioni. Nel 2008 producevamo in Europa il 32% dei veicoli mondiali e la Cina il 4%. Siamo scesi al 17% e la Cina è salita al 32%.
In tutto questo Stellantis è una crisi nella crisi.
Si deve fare un salto indietro al 18 dicembre 2019 data a suo tempo considerata storica per capirne la portata. Quando la famiglia azionista di Fca tramite Exor guidata da John Elkann va a nozze in Francia con gli amici di sempre, i Peugeot. I cronisti e gli analisti finanziari in quei giorni arrivano a parlare di vendita ai francesi.
C’è quel dividendo straordinario, oggi dimenticato, da 5,5 miliardi girato ai soci Fiat. C’è quella sensazione che l’Italia, che aveva fatto la storia dell’automobile possa essere mortificata dall’unione. Solo pochi mesi prima c’era stata la vendita di Magneti Marelli che, va ricordato, era nella filiera dei motori elettrici forniti, tra gli altri, alla Porsche. Tutti sintomi di una chiara disaffezione nei confronti del nostro Paese.
E arriviamo all’oggi. Con gli stabilimenti tricolori in cassa integrazione. Con i nuovi modelli dei marchi italiani che a stento si vedono. Con la continua delocalizzazione della produzione in Polonia, in Serbia, in Marocco. Delocalizzazione che stride con i fornitori che producono in Italia e continuano a fornire le aziende auto di tutto il mondo. A dimostrazione che si può essere competitivi.
E che dire del Parlamento quasi sfidato nei giorni scorsi da Tavares e costretto a incassare il rifiuto di John Elkann a un confronto?L’Italia diventa così l’esempio di una fusione più finanziaria che industriale. Nata sull’onda di mode gestionali che vedevano nella dimensione una strada per far sinergie, taglio dei costi. E non la possibilità di maggiori investimenti. Maggiore ricerca. E anche modelli aziendali più flessibili e capaci di rispondere a un mercato che cambia.
Persino l’America di Stellantis soffre, laddove la Chrysler con la Fiat era tornata a essere regina. La quota di mercato che era del 14% nel 2019 crolla all’8% di oggi. E soffre la Opel in Germania la cui acquisizione era stata la rampa di lancio per Tavares. Il titolo ha perso quasi il 50% dall’inizio dell’anno. E ieri, per tornare all’Italia, il crollo del 24,6% delle vendite.
Il rompicapo adesso è per colui che aveva conferito Fca in Stellantis: John Elkann. È lui che alla guida del comitato esecutivo dovrà scegliere il sostituto dell’amministratore delegato dimissionario. Un ritorno brusco a quella fabbrica dell’auto che la sua famiglia aveva creato. Da dove tutto era partito e che aveva fatto approdare in Francia. Ma servirà molto di più che un nome da indicare al posto di quello di Tavares.