Cresce l’emergenza umanitaria nel Paese, alla terza settimana di scontri fra esercito e paramilitari. I migranti potrebbero superare le 800mila unità
Continua a esasperarsi l’allarme in Sudan, entrato nella terza settimana di conflitto fra l’esercito regolare e i paramilitari delle Rapid support forces. In un incontro con la stampa, le Nazioni unite fanno sapere che gli scontri esplosi il 15 aprile hanno costretto almeno 100mila persone alla fuga oltre i confini del terzo Paese più esteso dell’Africa, in un bilancio umanitario che si fa sempre più grave. Il ministero della Sanità sudanese registra oltre 500 vittime e più di 4.500 feriti in nemmeno un mese di ostilità, un conteggio che le stesse autorità ritengono parziale.
Nello stesso incontro, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) dell’Onu ha stimato oltre 334mila sfollati interni al Paese, in aggiunta agli 1,1 milioni di cittadini che versavano nello stesso stato già alla vigilia delle ostilità. I sudanesi si stanno riversando sui Paesi confinanti, con l’attesa di 270mila arrivi solo fra il Ciad e il Sud Sudan, mentre la città costiera di Port Sudan sta accogliendo una quota sempre più ampia di rifugiati. È ancora l’Onu a ipotizzare che l’escalation possa spingere almeno 800mila persone alla partenza, con ricadute sulla stabilità di una regione già martoriata dall’intreccio di violenze terroristiche e crisi climatica. Ora le parti avrebbero concordato una tregua dal 4 all’11 maggio, ma l’esito di quelle annunciate e collassate finora non lascia troppi margini di ottimismo.
Il flop delle tregue e il rischio di escalation
Il conflitto è una resa dei conti fra i due ufficiali che guidano, rispettivamente, l’esercito regolare e i paramilitari: il generale al-Burhan, capo delle forze armate e presidente di fatto dal paese, e Muhammed Dagalo, detto «Hemetti», suo vice e leader di un corpo che conterebbe almeno 100mila uomini a suo servizio. Gli scontri, scaditi da combattimenti a terra e raid aerei dell’esercito, infuriano soprattutto nella capitale Khartoum, ma sono dilagati anche nella città gemella Omdurman e in altre regioni del Paese. Il sindacato dei medici locali denuncia un numero in crescita di vittime nel Darfur, la regione occidentale già martoriata da una guerra di quasi 20 anni e ora toccata, anche, dai flussi di migranti diretti verso il confine con il Ciad.
La diplomazia internazionale ha lavorato immediatamente all’evacuazione dei cittadini stranieri e tentato qualche proposta negoziale, ma gli appelli a una risoluzione pacifica del conflitto stanno cadendo nel vuoto. Finora esercito e paramilitari hanno dichiarato almeno cinque tregue, bilaterali o unilaterali, con altrettanti flop in fase di attuazione: le Rsf accusano l’esercito di violare sistematicamente gli accordi con attacchi anche a pochi minuti dalla dichiarazione della tregua, le forze armate rimpallano o non commentano la contestazione. Il cessate il fuoco indetto il 21 aprile è stato prorogato a più riprese con estensioni di 72 ore, prima della scadenze con scontri a fuoco, bombardamenti e blitz dei paramilitari.
Gli aiuti a Port Sudan e il problema delle consegne
Dopo l’esodo di organizzazioni e civili, la comunità internazionale sta predisponendo i primi interventi umanitari. La Croce rossa ha annunciato la consegna di un primo blocco di aiuti umanitari, un carico da otto tonnellate di materiale medico che dovrebbe essere consegnato a Khartoum e nelle altre aree di crisi. La stessa Croce rossa ha dichiarato che «spera» di vedere arrivare i carichi a destinazione, visto che la distanza fra la costa e la capitale supera gli 800 chilometri e le stesse strutture ospedaliere sono sempre più impraticabili. Il sindacato dei medici sudanesi riporta che 60 degli 86 ospedali operativi in aree «vicino» ai combattimenti hanno dovuto interrompere le attività, mentre l’organizzazione non governativa Medici senza Frontiere ha denunciato il saccheggio di una sua struttura.