Suicidio assistito, affettività in carcere, figli di coppie gay: Meloni si mostra inerte o negazionista. L’esecutivo è prigioniero della propria intolleranza verso le minoranze. E sui diritti il Parlamento latita
Suicidio assistito di malati irreversibili, affettività dei detenuti, figli di coppie omogenitoriali. La vita, la morte, l’amore. Qual è il filo rosso che attraversa queste tre diverse proiezioni dell’essere umano? In tutte e tre sono in gioco diritti fondamentali. La politica finora se n’è tenuta alla larga, incapace di trovare le parole giuste per riconoscerli e tutelarli, superando ideologismi e contrapposizioni frontali. Fino al negazionismo del governo Meloni. Che però deve fare i conti con la Corte costituzionale, con la forza e i limiti del suo potere, che a quei diritti ha dato corpo: una sentenza della Corte ha la stessa forza di una legge, quanto agli effetti generali che produce; e una volta riconosciuti, a quei diritti corrisponde un preciso obbligo dello Stato (nelle sue diverse articolazioni) di tutelarli in maniera effettiva, con lealtà, senza ostruzionismi o finti alibi, e possibilmente con un’ampiezza maggiore. La Corte non può infatti oltrepassare il confine che la separa dal Parlamento, ed è questo il limite del suo potere; ma nello spazio in cui viene esercitato, quel potere è in grado di cambiare, e ha cambiato mille volte, la vita, la morte e l’amore di tutti noi. Eppure, eccoci a doverlo ricordare e a pretendere l’attuazione dei nostri diritti di fronte a un governo tanto zelante nel ricorrere ai decreti legge sulla pelle degli ultimi e ai manganelli per zittire il dissenso delle minoranze quanto inerte nel rispettare le sentenze della Consulta sui diritti fondamentali, fino a negarne l’esistenza con una narrazione ideologicamente manipolativa.
Lo scontro tra verità e controverità, la polarizzazione e radicalizzazione della politica su alcuni temi, come quelli eticamente sensibili o frutto di pregiudizi ideologici, è ormai un virus letale nelle democrazie. Di fronte al blocco del Parlamenti, intervengono le alte Corti, accusate di adottare sentenze “creative” di nuovi diritti, incompatibili con l’interpretazione “originalista” della Costituzione (cioè strettamente letterale), benché superata nelle democrazie non ancora diventate autocrazie come l’Ungheria di Orban. Anche il governo israeliano di Netanyahu, prima della guerra, stava spingendo in questa direzione la Corte suprema, che è un modello nel mondo proprio per la sua coraggiosa giurisprudenza a tutela dei diritti formatasi grazie all’interpretazione “evolutiva” delle leggi fondamentali, aperta anche al diritto internazionale. Insomma, il contrario dell’interpretazione “originalista” e della concezione, anch’essa obsoleta ma rivendicata dalle destre, del giudice “bocca della legge”.
Ecco allora perché quando si parla di vita, di morte e di amore il governo Meloni rimuove le decisioni della nostra Corte. E con esse, i nostri diritti. Vorrebbe che non se ne parlasse. Parliamone, invece. Sono trascorsi cinque anni dalla sentenza sul suicidio assistito, la 242 del 2019, ritagliata sul caso di DJ Fabo ma con effetti generali. Eppure molti pazienti nelle sue stesse condizioni (affetti da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psichiche, tenuti in vita da macchinari ma capaci di decidere liberamente) non possono esercitare il diritto riconosciuto loro dalla Corte, oppure, se hanno i soldi, vanno a morire in Svizzera. Alcune Regioni, come l’Emilia Romagna, sono ora disponibili a regolamentare con legge la procedura per rendere effettivo sul territorio, in tempi ragionevoli, il suicidio assistito, sia pure entro il perimetro della sentenza della Corte. Non è che la doverosa attuazione di quella sentenza che, come già detto, vale quanto una legge. Dunque: per tutti i DJ Fabo intenzionati a lasciare una vita non più vita. Si chiama leale collaborazione istituzionale: la Regione non legifera per riconoscere un diritto già riconosciuto dalla Corte ma per garantire tempi certi entro cui rendere effettivo quel diritto. Di fronte a una disciplina statale integrata dalla Consulta, l’attuazione regionale non scalfisce affatto la competenza dello Stato in materia sanitaria (concorrente a quella delle Regioni) e quindi non si comprendono le obiezioni, che sembrano fondate su formalismi e ideologismi più che sulla tutela dell’interesse della collettività. L’Emilia Romagna è un esempio da seguire in attesa che il Parlamento approvi una legge anche sull’eutanasia.
Ma purtroppo il Parlamento latita. Dio, patria, famiglia, ordine e disciplina sono le parole chiave del governo Meloni, che non ce la fa proprio a riconoscersi nella cultura costituzionale, pluralista, antifascista, ed è prigioniero della propria intolleranza verso le minoranze, trattate come “nemici” da combattere a suon di manganello, bavagli, negazionismi, cattivismi. Ecco allora che in questo clima – ce lo insegnano le regressioni democratiche in atto nel mondo – le Corti costituzionali diventano un bersaglio da intimidire, silenziare, normalizzare, occupare, delegittimare, perché sono, come diceva Piero Calamandrei, la «viva voce della Costituzione». Una voce stonata nella narrazione politica e mediatica del centrodestra.
Secondo la viva voce della Costituzione, la famiglia non è più solo quella “naturale” di 70 anni fa, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, ma è una comunità di affetti e di cure e come tale «è un forte elemento del diritto all’identità del minore». La Corte ha sdoganato la “famiglia sociale”, con due mamme o due papà, e ha stabilito che i figli sono tutti uguali: che “nascano” da coppie sposate o conviventi, da genitori etero o gay, che siano adottati, anche da single omosessuali, o siano nati con tecniche vietate come la maternità surrogata, non importa, hanno tutti gli stessi diritti e lo Stato ha il dovere di tutelarli. E invece no: il governo usa le sentenze solo quando gli fanno comodo altrimenti le ignora e così fa ostruzionismo alle famiglie sociali, negando il pieno, effettivo e rapido riconoscimento dei diritti dei loro figli.
Infine l’amore, il diritto di amare anche dietro le sbarre, perché coltivare i sentimenti, abbracciarsi, accarezzarsi, baciarsi, fare l’amore è fondamentale per uno sviluppo equilibrato della persona. Non è una concessione ma un diritto riconosciuto dalla sentenza n. 10 del 2024 della Consulta. Dopo 12 anni di inutile attesa del legislatore, ora la Corte ha cancellato la norma lesiva della dignità dei detenuti e ha chiesto anzitutto all’amministrazione penitenziaria di eliminare, sia pur gradualmente, la “desertificazione affettiva” nelle carceri. «La qualità delle nostre relazioni – spiega lo psichiatra Umberto Galimberti – dipende dal livello della nostra alfabetizzazione emotiva: chi non sa sillabare l’alfabeto emotivo (perché non è stato educato a farlo o gli è stato sempre imposto di controllarsi), chi lascia inaridire il cuore e i sentimenti, si comporta con timore, con aggressività, spesso in modo paranoico, e percepisce il mondo come potenziale nemico da temere o da aggredire». Nel deserto della comunicazione emotiva cresce “il gesto”, soprattutto quello violento, imprevedibile. In carcere cresce l’aggressività verso gli altri e verso se stessi. Del resto, il carcere è lo specchio del mondo fuori: e se “il dentro” è scandito quasi quotidianamente dai suicidi, “il fuori” fa i conti, quasi con la stessa cadenza, con i femminicidi, anch’essi frutto del dilagante analfabetismo emotivo.
Eppure, il cattivismo delle destre di governo, combinato con il pregiudizio e l’incultura, tratta questo diritto ancora come un optional, tanto da aver bloccato la volontà dell’amministrazione – là dove prevale il senso di responsabilità – di osare e di sperimentare per tutelare «le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono»: così scrive la Corte, ponendo ancora una volta l’accento non sulla famiglia fondata sul matrimonio ma sulle relazioni e sulla dignità della persona. Parole che in una democrazia costituzionale hanno un peso e che vanno difese contro i tentativi di silenziarle o, peggio, di manganellarle.