Dentro il Partito democratico divisioni sulle strategie.
Il potere logora chi non ce l’ha. E siccome i partiti di maggioranza il potere oggi non ce l’hanno, cercano di sintonizzarsi con l’elettorato entrando in competizione con l’esecutivo. Cioè con Draghi. Epperò — come sottolinea un ministro — «questo schema di gioco è vecchio. E quanti lo adottano non si rendono conto che attorno a loro, nel Paese, è cambiato tutto. Prima o poi dovranno svegliarsi». Nell’attesa, il premier deve fare i conti con le manovre delle forze politiche. E l’irritazione maturata negli ultimi giorni non è dettata dalla necessità di trovare dei compromessi, semmai dal fatto che queste azioni tattiche stanno provocando ritardi al ruolino di marcia stabilito per i provvedimenti messi in cantiere.
Fonti accreditate del governo ricostruiscono le cause dello scontro sul decreto Sostegni e raccontano che, mentre Lega e Forza Italia si erano mosse per tempo con le loro richieste, il Pd l’ha fatto «solo all’ultimo momento» con il pacchetto sul Lavoro: lo slittamento di un paio di settimane rischia così di ingolfare l’attività del Parlamento e di far saltare il timing per l’approvazione dei decreti e delle riforme. Ecco il punto. Siccome le scadenze sono parte dell’accordo con l’Europa, Draghi ha fatto sapere ai partiti che sulle norme per le Semplificazioni — dove c’è il delicato tema del Codice degli appalti su cui i dem minacciano le barricate — la trattativa non potrà contemplare ulteriori ritardi.
Si vedrà se e come le forze politiche reagiranno. In principio era stato Salvini ad applicare il metodo «di lotta e di governo» sulle riaperture. Poi, come in una sorta di staffetta, il testimone è passato a Letta. Tanto che il leader della Lega ha restituito al segretario del Pd la battuta con la quale veniva attaccato: «Se Letta non se la sente, può uscire dal governo». Né l’uno né l’altro possono (e vogliono) farlo, ma ora che i temi all’ordine del giorno sono cambiati è il Nazareno a essere entrato in sofferenza. I democratici vivono in questa fase un paradosso. Il partito europeista per eccellenza è messo in difficoltà da riforme che proprio l’Europa chiede e che smontano il sistema di potere di cui, di fatto, il Pd era custode: lavoro, fisco, burocrazia e giustizia.
Davanti a questo scenario persino gli uomini di Letta si dividono. Mentre un membro della segreteria ammette che «è necessario attrezzarsi al salto», un altro invece definisce l’esecutivo «un governo di destra», avvisa Draghi che «potrebbe finire come Monti» e che «il Pd non accetterà mai di fare la parte di Scelta civica». Nell’esecutivo sono consapevoli, e lo dicono, che «certe visioni contrapposte stanno esplodendo». Sia chiaro, questa situazione non mette a repentaglio la stabilità. Il premier si sta mostrando abile nel tenere i rapporti con i ministri: alle riunioni della cabina di regia, per esempio, discute con Patuanelli. Tranne poi appoggiarsi a Di Maio nei passaggi che contano. E guarda caso l’altro ieri il ministro degli Esteri è intervenuto sul decreto Semplificazioni mentre montava la polemica, spezzando una lancia a favore di Draghi: «Per far ripartire il Paese serve cambiare le procedure».
Le tensioni sulle riforme insomma non intaccano il governo, mettono alla prova la tenuta delle forze politiche e i loro rapporti di alleanza. Sulla giustizia, il dem Raciti chiede al partito di assumere una posizione garantista, che però confligge con la posizione dei grillini: «Ma se c’è un problema che si trascina dal ‘92, se c’è un gabinetto di larghe intese, se c’è un ex presidente della Consulta come Guardasigilli, se c’è una devastante crisi di sistema nella magistratura, noi — davanti a una riforma che serve alla Repubblica — dovremmo metterci a fare i girotondi?».
Così salta il tappo, tra e dentro i partiti, con un pezzo di Pd che arriva ad attaccare frontalmente Orlando, «che ora ha problemi con Draghi e persino con la sua constituency nel mondo di sinistra». Più o meno lo stesso clima che poco tempo fa si respirava nella Lega, dove Salvini aveva tolto il dossier delle nomine a Giorgetti. Ora la situazione nel Carroccio è migliorata, «il nostro unico problema — diceva il capogruppo Molinari — resta quello dell’immigrazione». Ma ieri, dopo l’iniziativa sul tema presa a Bruxelles da Draghi, Salvini ha ringraziato il premier. La ruota gira. Le larghe intese sembrano una lavatrice con il programma impostato sulla centrifuga.