22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

terrorismo

di Franco Venturini

L’attacco alla Germania dimostra che l’Isis colpisce pure chi non è in primissima linea sul fronte. Il massacro in Francia può avere un intento provocatorio che va oltre il delitto commesso e fa parte di una strategia che va spiegata meglio all’opinione pubblica

Sono rimasti in pochi, quelli che preferiscono non parlare di guerra. Piuttosto ogni nuovo orrore conferma la lungimiranza e la precisione della ormai lontana definizione di papa Francesco, «una guerra a pezzettini»: insieme asimmetrica e globale, anti occidentale e anti islamica, barbara ma guidata da menti sofisticate. L’accelerazione degli attacchi ci chiama a riflettere e a capire in fretta, perché anche l’Isis ha fretta. E mette nel mirino non soltanto i nostri valori, ma anche quel nostro modello di convivenza sociale che il Califfato spera di rovesciare servendosi dei nostri stessi strumenti, da Internet alle elezioni democratiche. Senza saperlo Abu Bakr al Baghdadi imita Lenin, quando diceva «i capitalisti ci venderanno la corda con cui li impiccheremo».
Il capo dei bolscevichi non riuscì nell’intento, si tratta ora di fermare le strategie che al Baghdadi utilizza per entrarci in casa. La linea che separa «pazzi» e terroristi si fa ogni giorno più sottile. E anche meno rilevante. Con poche eccezioni (il movente passionale nell’omicidio di Reutlingen, se sarà confermato) gli autori dei più recenti attacchi terroristici sono in minoranza «soldati» dell’Isis e in maggioranza giovani islamici con problemi psichici o psicologici. Problemi che possono essere di semplice frustrazione, e possono nascere anche da banali desideri di rivalsa. I l bacino dei potenziali radicalizzati diventa così enorme, e viene sfruttato in automatico perché l’Isis ha piazzato sui social network o sui siti internet le trappole per catturare i più vulnerabili tra quanti sono in crisi di identità. L’offerta non è trascurabile: una ideologia, per chi è disorientato dal non averne; il «riscatto» morale e sociale con un altissimo livello di visibilità; una militanza religiosa fondamentalista fatta apposta per mobilitare. Il terrorista è tra noi, più che mai. E una riflessione sulla pericolosità del web, accanto alle sue molteplici e ormai irreversibili virtù, prima o poi bisognerà farla ai più alti livelli.
L’attacco di martedì alla chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, con lo sgozzamento di un sacerdote ottuagenario, può avere un intento provocatorio che va oltre il delitto commesso. I «crociati» cristiani, certo, sono da sempre nemici, come gli ebrei. Ma il gesto è troppo feroce per non autorizzare il sospetto che si voglia innescare un contro-terrorismo, una reazione che si volga contro le moschee o comunque contro la generalità dei francesi di religione islamica. Per l’Isis sarebbe un trionfo, e dopo non gli risulterebbe difficile versare altro olio sul fuoco. L’Isis è in campagna elettorale. In Francia, nemica da sempre e ideale terreno di sovversione con i suoi sei milioni di islamici. Ma ora anche in Germania, che prima sembrava trascurata. Come non ricordare che in Francia si vota a maggio e in Germania a settembre 2017, che in Francia il Front National guida i sondaggi e in Germania Angela Merkel è stretta tra l’estrema destra e i suoi colleghi di partito bavaresi, come non vedere che Heidingsfeld, Monaco e Ansbach sono tutti in Baviera, come non capire che la questione migratoria è per l’Isis un grimaldello formidabile capace di affogare i moderati nelle urne e di portare al potere una destra estremista contro cui sarà più facile lottare per arrivare un giorno al trionfo islamico? Questo è soltanto l’incubo di Houellebecq, si dirà. Può darsi, ma a condizione che un risveglio collettivo riesca a dissolverlo in tempo.
All’Italia, poi, non deve sfuggire una circostanza che la riguarda. Attaccando per la prima volta la Germania (almeno con l’operazione rivendicata di Ansbach) il Califfato ha voluto, secondo il comunicato dell’agenzia Amaq, «colpire i Paesi che partecipano alla coalizione contro l’Isis». La Germania, infatti, è membro di quella coalizione, come l’Italia. E come l’Italia non ha sin qui usato la forza militare direttamente contro l’Isis, dedicandosi invece a ricognizioni aeree e all’addestramento di forze locali. In più i militari italiani provvedono alla evacuazione di feriti dal campo di battaglia e proteggono i lavori di sistemazione della diga di Mosul. Il segnale è semplice: anche chi fa meno di noi nella coalizione (conta poco che le ricognizioni aeree italiane siano in Iraq e quelle tedesche in Siria) è stato attaccato. Basta saperlo, e basta non farsi troppe illusioni senza per questo smettere di sperare che l’assenza di attacchi sul nostro territorio continui.
La minaccia si va dunque precisando mentre si allarga. Una minaccia che non è certo destinata a decrescere, mentre in Iraq si prepara l’assalto alla roccaforte di Mosul. E che inevitabilmente moltiplicherà i suoi colpi in Europa come ha già fatto nelle ultime settimane, poco importa se con il meccanismo della emulazione guidata dalla Rete o con quello degli ordini eversivi mandati da Raqqa. Per reagire dobbiamo affrontare l’Isis sul campo di battaglia, ma anche sul suo terreno favorito: quello che penetra l’opinione pubblica, quello che recluta sfruttando la debolezza dei singoli. La politica e i media, in ogni Paese europeo, devono saper andare oltre i fatti di sangue, devono spiegare chi e perché li commette, devono avvertire l’opinione pubblica che un burattinaio stragista sta puntando sui cittadini elettori per sfruttare la paura del terrore e il disagio che nasce dai flussi migratori. E occorre capire questo disagio, smetterla di scomunicare i «populisti» quando non sono avvoltoi in attesa del peggio, combattere invece le facili generalizzazioni e trasmettere una genuina volontà politica che escluda la resa. Per le grandi nazioni europee è la prova più dura dalla fine della Seconda guerra mondiale, perché contro al Baghdadi non abbiamo ancora trovato l’antidoto che avevamo nei confronti dell’Urss durante la Guerra fredda. E di tempo, calendario elettorale alla mano, ne abbiamo poco.

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