Fonte: Corriere della Sera
di Dario Di Vito
La giunta Appendino vuoi per l’influenza che esercitano al suo interno i NoTav vuoi per una cultura economica che disprezza la crescita è andata avanti per la sua strada fino ad assestare quello che è stato definito un «colpo basso alla città»
È la seconda volta da quando è iniziata la nuova stagione politica che il partito del Pil si è fatto sentire in maniera compatta per contrastare decisioni prese dal governo o dalle amministrazioni locali. Era già capitato con il decreto Dignità e ieri a Torino abbiamo visto il bis. I presidenti di una dozzina di associazioni imprenditoriali da una parte e un presidio sindacale della Fim-Cisl dall’altra hanno marcato la loro presenza e hanno mostrato chiaramente all’amministrazione pentastellata come la pensino le imprese e il lavoro a proposito della Torino-Lione. La giunta Appendino vuoi per l’influenza che esercitano al suo interno i NoTav vuoi per una cultura economica che disprezza la crescita è andata avanti per la sua strada fino ad assestare quello che è stato definito un «colpo basso alla città». Un ordine del giorno del Consiglio Comunale che chiede di fermare i lavori dell’alta velocità.
Il Movimento 5 Stelle, che pure si vanta di voler reinventare la democrazia, in realtà non riesce a mediare in maniera costruttiva tra il mandato elettorale e la funzione rappresentativa, così i suoi esponenti di punta ogni volta che devono prendere una decisione qualificante e spinosa appaiono delle anime in pena. Sono terrorizzati di avere «nemici a sinistra» e quindi vagano alla ricerca di alibi, inventano escamotage d’ogni tipo, recitano più parti in commedia. È segno di una profonda immaturità politica che non si lava solo con il consenso.
In più il movimento capeggiato da Luigi Di Maio sconta il limite di avere una conoscenza delle dinamiche della crisi italiana non sufficientemente collaudata, venerano come un totem lo Stato e sfugge loro tutta l’articolazione dell’economia moderna. La funzione di impresa, il valore dei territori. Figuriamoci se riescono a comprendere il motivo per cui nel dopo Grande Crisi i temi della mobilità e della logistica hanno scalato posizioni nell’agenda politica delle priorità. Tutto è ridotto e appiattito nello scambio con i piccoli gruppi che sono stati loro alleati nella campagna elettorale e che ora li tengono sotto schiaffo.
Torino dal canto suo si dibatte in una crisi profonda, la ripresa che abbiamo conosciuto dal 2015 ad oggi, seppur meno vivace del dovuto, ha mutato la geografia economica del Nord. Lo sviluppo si è spostato verso Est e gli ottimi risultati inanellati dai sistemi produttivi di regioni come l’Emilia e il Veneto lo dimostrano. Torino e il Piemonte invece hanno segnato il passo, non sono riusciti a cambiar marcia, hanno visto allargarsi le disuguaglianze e deperire il capitale umano. Da qui il sogno della Tav coltivato da parte degli industriali e degli operatori economici come il passepartout capace di rompere il rischio di isolamento, riaprire i canali verso Ovest, uscire dal rapporto di competizione/sudditanza con Milano (per altro alimentato dalla sindaca Appendino con una serie di dichiarazioni improvvide). Non è un mistero che Torino viva una interminabile transizione che l’ha vista evolvere lentamente dal vecchio ruolo di company town fino ad adottare un modello economico fatto di capitalismo leggero e riscoperta della cultura, peccato però che la mutazione non si sia rivelata sufficiente ad alimentare lo sviluppo e a tenere il passo della concorrenza e la città sia precipitata in quel cono d’ombra che lo storico Giuseppe Berta ha diagnosticato nei suoi articoli. Le trasformazioni dell’economia post-crisi sono troppo veloci e non aspettano i tempi di Torino, come sostiene anche l’ultimo rapporto «Giorgio Rota» sottolineando un deficit di terziario moderno scandito dalla contrazione delle attività scientifiche, di information technology e dei servizi alle imprese, causata dal trasferimento dei quartier generali in altre città più attrattive.
È questo il contesto che la giunta Appendino fatica ad inquadrare, mentre è diventato il chiodo fisso degli industriali e ora anche dei sindacati uscire dal cono d’ombra. L’incomunicabilità che si è potuta vedere ieri in municipio è la logica conseguenza di questa distanza. Per ridurla la Confindustria di Vincenzo Boccia ha deciso di fare del caso Torino una questione nazionale convocando in città un Consiglio generale straordinario. Il partito del Pil comincia ad averne abbastanza.