Fonte: Corriere della Sera
di Dino Martirano
I principali nodi della riforma costituzionale sottosposta a referendum il 4 dicembre, secondo due esperti della Carta: Stefano Ceccanti per il Sì, Anna Falcone per il No
1. Elezione del Senato e immunità
SÌ «Il nuovo Senato non sarà una Camera eletta a suffragio universale. Non deve esserlo. Perché non serve creare un doppione della Camera dei deputati che da sola ha un rapporto di fiducia con il governo. Piuttosto, il nuovo Senato deve dare voce al legislatore regionale, alle istanze dei territori e alle comunità locali: è questo il punto di svolta, la novità assoluta e per questo bisogna votare Sì al referendum. L’immunità parlamentare? Così come è stata cambiata nel 1993 con la modifica dell’articolo 68 (limitandola all’insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio del mandato e alle misure restrittive) serve anche per i senatori. Altrimenti facciamo la fine della Turchia dove Erdogan può far arrestare i parlamentari di opposizione».
NO «L’unica certezza che abbiamo, non essendoci ancora la legge sull’elezione dei senatori, è che il nuovo Senato non sarà una Camera eletta a suffragio universale. Trovo molto grave che Renzi mostri la scheda per l’elezione dei senatori che si riferisce a una legge ancora non approvata dal Parlamento. Il doppio lavoro dei senatori è un elemento di disfunzionalità: il sindaco e il consigliere regionale sono chiamati a svolgere una funzione amministrativa, basata sulla velocità delle decisioni. Invece il senatore, che svolge una funzione politica, dovrebbe badare di più alla ponderatezza delle sue scelte legislative. E poi, non essendoci vincolo di mandato come nel Bundesrat tedesco, non è detto che il senatore eletto in una regione poi finisca per tutelare gli interessi di quel territorio».
2. Camere, fiducia, territori
SÌ «Quello della fiducia concessa da una sola Camera è il punto chiave e vincente di questa riforma. I cittadini che votano devono poter decidere anche la maggioranza che esprime il governo del Paese. Ma questo meccanismo funziona a condizione che ci sia solo una Camera che esprime la fiducia al governo. Non basta: serve anche che il sistema elettorale abbia un’impronta maggioritaria, un premio che consenta la governabilità. Così si passa dalla democrazia consociativa alla democrazia competitiva. Inoltre, la seconda Camera dei territori deve servire a ridurre il conflitto tra Stato e Regioni. Al Senato, che funzionerà da Camera di compensazione tra centro e periferia del Paese, la questione di fiducia sui singoli provvedimenti è irrilevante perché i senatori avranno, per così dire, un potere di veto soltanto sul tre per cento delle leggi».
NO «Chi sostiene questa riforma non racconta che in tutta la storia repubblicana soltanto due governi sono caduti perché è venuta meno la fiducia in uno dei due rami del Parlamento. I governi spesso cadono a causa di accordi fatti fuori dal palazzo. Noi avremmo preferito un sistema più efficiente che puntasse a una vera stabilità dei governi. Bastava inserire nella riforma la sfiducia costruttiva: perché un parlamentare, se sa che perderà il posto, ci pensa due volte prima di sfiduciare il governo che sostiene. E di tutto questo non c’è traccia nella riforma».
3. Teglio dei costi
SÌ «Bisogna valutare positivamente sia i tagli dei costi che arrivano subito e quelli che scatteranno a regime. Adesso, con questa riforma, tagliamo 315 stipendi da senatore ma in futuro, a regime, non dovremmo pagare più le indennità agli ex senatori. E non saranno risparmi irrilevanti. Per quanto riguarda poi l’autodichia di Camera e Senato (il potere di decidere in casa, senza sottostare a giudizi esterni, le regole su stipendi, dipendenti e appalti, ndr) va ricordato che la norma è stata fatta soprattutto per i dipendenti dei gruppi parlamentari che oggi vengono licenziati alla fine di ogni legislatura. Certo, con questi tagli non si ripiana il debito ma così i politici danno per primi il buon esempio».
NO «Non si modifica più di un terzo della Costituzione per risparmiare, come certificato dalla Ragioneria generale, 50 milioni di euro. Praticamente 80 centesimi per ogni italiano, un caffé a testa ci frutta questa riforma. Dunque, la domanda viene spontanea: vale giusto un caffé una riforma che punta a rafforzare i poteri del governo a scapito dei diritti dei cittadini? La razionalizzazione dei costi della politica va perseguito tutti i giorni e in ogni settore. Invece qui siamo davanti al classico specchietto per le allodole per convincere gli elettori. Le Province, poi, muoiono una seconda volta. Come dire, (ri)spariscono. Si potevano risparmiare somme maggiori con un serio contrasto all’evasione fiscale».
4. È la Camera che legifera
SÌ «I procedimenti legislativi, in pratica, sono solo due: quello a prevalenza della Camera, che riguarda il 97% delle leggi, e quello bicamerale che investe giusto il 3% dei provvedimenti. Il comma I del nuovo articolo 70 è più lungo ma disciplina in modo chirurgico e puntuale i due procedimenti. Non ci sono problemi, è tutto scritto: Il Senato potrà richiamare tutte le leggi che riguardano gli enti locali e presentare molti emendamenti che non sono vincolanti. E la Camera, accogliendo anche in parte le proposte di modifica avanzate dai senatori, potrà comunque sminare il potenziale contenzioso tra Stato e Regioni».
NO Molti costituzionalisti, dopo aver scandagliato il nuovo articolo 70, hanno contato tra i 7 e 13 procedimenti legislativi diversi. L’articolo 70 tratta in modo confuso i vari percorsi che dovranno seguire le leggi: saranno all’ordine del giorno contenziosi continui tra Camera e Senato. Le questioni che oggi si risolvono nella giunta del regolamento della Camera o del Senato domani finiranno sotto forma di conflitto tra poteri davanti alla Corte costituzionale. Quindi questa non è una riforma che velocizza il procedimento legislativo e che dà la necessaria trasparenza all’iter delle leggi. E pensare che per risolvere molti di questi problemi bastava mettere mano, senza cambiare la Costituzione, ai regolament.
5. Conversione dei decreti legge
SÌ «Oggi i decreti legge rappresentano una patologia nella dinamica parlamentare e la riforma supera questa anomalia. E, dunque, la novità più rilevante riguarda l’estensione dei limiti temporali, da 60 a 90 giorni, per la conversione del decreto nel caso il presidente della Repubblica intenda rinviarlo alle Camere. E poi ci sono i disegni di legge del governo da approvare a data certa entro 70 giorni che diventeranno 100-110 giorni se si considera l’intero iter anche al Senato. Così, il nuovo sistema sceglie una strada mediana: tra i 60 giorni previsti attualmente per la conversione di un decreto legge e i 500 giorni mediamente necessari per approvare un disegno di legge del governo».
NO «In realtà i limiti alla reiterazione dei decreti legge e i paletti per le leggi di conversione sono stati stabiliti da tempo dalla Corte costituzionale. Poi, con i disegni di legge da approvare a data certa è prevedibile che il governo monopolizzerà l’attività parlamentare con le sue proposte. In pratica, verrà estesa ancora di più la funzione di governo che invaderà definitivamente l’attività parlamentare. La divisione classica dei poteri rimarrà solo un lontano ricordo».
6. Referendum abrogativo
SÌ «Oggi le proposte di legge di iniziativa popolare non sono considerate in modo serio. E visto che con la riforma viene introdotto un termine per la loro calendarizzazione, ne consegue che l’istituto debba essere deflazionato: portando le firme necessarie per presentarle da 50 mila a 150 mila. Sul referendum abrogativo nulla cambia nel caso vengano raccolte almeno 500 mila firme: il quorum per la validità è sempre del 50% più uno degli aventi diritto. Se invece i promotori superano quota 800 mila firme, il quorum si abbassa alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni per la Camera dei deputati. E questo cambiamento rappresenta un contropotere molto efficace».
NO «Su questo punto emerge tutta l’asimmetria di questa riforma. Per il disegno di legge del governo da approvare a data certa è stabilito il limite massimo di 70 giorni. Invece, tutto viene rinviato ai futuri regolamenti parlamentari per i tempi di calendarizzazione delle leggi di iniziativa popolare, per le quali si triplica comunque il numero delle firme richieste ai richiedenti (da 50 mila a 150 mila). Dunque è un falso affermare che nella riforma c’è un obbligo di legge per la calendarizzazione dei testi di iniziativa popolare: i tempi, le forme e i limiti dell’esame di queste proposte saranno infatti stabiliti dai regolamenti parlamentari che le varie maggioranze parlamentari decideranno di modificare. Sul referendum abrogativo non è stata affrontata l’unica questione rilevante per chi li promuove: le modalità di raccolta delle firme che oggi comportano il pagamento dei cancellieri per l’autentica delle firme. In questo modo si riduce l’iniziativa referendaria a gruppi organizzati e finanziati, alle lobby e ai partiti».
7. Italicum
SÌ «É una previsione molto efficace perché fa sentire i suoi effetti anche retroattivamente. Se infatti verrà approvata la riforma, l’Italicum (che è già legge dello Stato) potrà essere portato da una minoranza di parlamentari davanti alla Corte costituzionale. Infatti, la Consulta ha congelato i ricorsi veicolati dai vari tribunali sull’incostituzionalità della legge elettorale ma non ha ancora detto se quei ricorsi siano ammissibili o meno».
NO «Il controllo preventivo di costituzionalità della legge elettorale può essere utile ma non risolutivo. Perché le leggi, soprattutto quelle elettorali, vanno scritte bene a monte. E poi il plenum della Corte ha una composizione a geometria variabile: quello che oggi è incostituzionale domani — con un plenum diverso che è composto anche da 5 giudici eletti dal Parlamento e 5 di nomina presidenziale — potrebbe non esserlo».
8. Elezione Capo dello Stato
SÌ «Semmai questa norma può essere considerata sbagliata perché è troppo garantista. I quorum infatti sono alti. Perché oggi dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta per eleggere il capo dello Stato e poi si passa alla maggioranza dei tre quinti degli aventi diritto, prima e dei votanti, poi. Ma questo vuol dire che senza una componente molto consistente dell’opposizione il presidente della Repubblica non si elegge».
NO «Ci preoccupa molto quello che può succedere dopo il settimo scrutinio. Chi infatti ha il 54% dei seggi parlamentari grazie al premio di maggioranza dell’Italicum poi, sulla carta, avrebbe anche i numeri per boicottare i primi sette scrutini per l’elezione del capo dello Stato. E dal settimo scrutinio in poi c’è la possibilità che il partito di maggioranza relativa il capo dello Stato lo elegga da solo».
9. Competenze Stato e Regioni
SÌ «Va chiarita una connessione che fin qui è rimasta nascosta: nessun Titolo V sarà mai soddisfacente se prima non si cambia il Senato creando la Camera dei territori. Le leggi infatti nascono dai problemi reali e i problemi reali spesso si accavallano tra materie diverse. E poi non è vero che questa riforma riporta tutto al centro e ai poteri dello Stato perché dà la possibilità alle Regioni ordinarie di diventare un po’ speciali. Cioè la Regione che ritiene di avere i numeri per farlo, può provare a contrattare con il governo una promozione di livello».
NO «Si elemina la legislazione concorrente proprio al termine di un lungo periodo in cui la Consulta ci ha detto quali sono i confini e i limiti tra la legislazione regionale e quella statale. Sulla Sanità, che poi è la più strategica delle materie e sulla quale il governo ha molto speculato in queste settimane, la formula della nuova riforma è comunque opaca: allo Stato, le linee generali e alle Regioni, la programmazione e l’organizzazione dei servizi sanitari. E a proposito di federalismo fiscale, si conferma che le Regioni, anche per la Sanità, potranno contare soprattutto sul gettito fiscale locale. Ma questo vuol dire che le Regioni più povere del Sud saranno ancora una volta penalizzate».
10. Gli statuti speciali
SÌ «Sarebbe sbagliato e controproducente “punire” le Regioni a statuto speciale solo per colmare le differenze con quelle a statuto ordinario. Piuttosto, noi dobbiamo dare alle Regioni ordinarie la possibilità di salire di grado. E poi non è vero che le Regioni a statuto speciale siano paragonabili a cinque Stati completamente autonomi. Non è così: hanno il vincolo del pareggio di bilancio e, nel legiferare, devono rispettare l’interesse nazionale».
NO «È l’ennesimo elemento di asimmetria della riforma. Così si creano cittadini di serie A, che vivono nelle cinque Regioni a statuto speciale, e di serie B che vivono in quelle a statuto ordinario. Queste saranno private di molti poteri, quelle speciali manterranno tutte le prerogative. Quelle ordinarie, con la clausola di supremazia esercitata dallo Stato, potranno essere private anche delle materie residuali. Quelle speciali sono blindate: i loro statuti potranno cambiare solo con il loro consenso».